Cover

Memoria collettiva sotterrata: I suggetti (1985)

 

Amballabá, ciccí, coccó.
Tre civette sul commó
Che facevano l’amore
con il figlio del dottore.
Il dottore si amaló,
amballabá, ciccí, coccó.



vecchia filastrocca


 

 

 

 

Cugiu

 

Ho conosciuto “il Barone“ ossia “Cugiu“, quando avevo una trentina di anni e soggiornavo, allora moglie di Nicola, spesso a Corniglia.

 

In quei tempi già parlavo bene l’italiano e anche un po’ di dialetto ligure. Avevo molto tempo, poiché il marito, appena ritornato nella sua patria, partiva per andare a pescare in alto mare e non si faceva più vedere per parecchio tempo. Per non sentirmi sola e per evitare che le mie corde vocali si asciugassero e si incollassero, ogni sera scendevo giù in paese. Esattamente all’ora in cui tutti si riunivano per chiacchierare un po’, quasi per un‘antipasto’.

 

Il Barone era sferico come una botte, di piccola statura e con una faccia tonda, che entrava direttamente, senza collo, nel suo torace enorme ed enfisematico. Maestosamente e con passo lento si avvicinava al gruppetto riunito. Dato che la via centrale del paese andava un po’ in salita, era costretto a fermarsi dopo pochi passi, per prendere aria. Così, il suo avvicinarsi veniva registrato in tempo ed ognuno si immaginava velocemente il modo in cui lo si sarebbe potuto prendere in giro.

 

Questa abitudine, ancora oggi, ha una grande tradizione nel paese di Corniglia. A cominciare dal fatto che per ogni abitante – che sia nato lì o che sia venuto da fuori – inventano un soprannome plastico che, con l’andar del tempo, si sostituisce al nome di battesimo, spodestandolo. Questo soprannome mette in luce – pars pro toto – il tratto più caratteristico della persona, e diventa, nello stesso tempo - pars in toto – una pietra nel mosaico colorato e splendido del paese.

 

C’è un “Leccalumi”, un parsimonioso ingegnere allora quasi sessantenne, cittadino, rispettato da tutti, il quale, da ragazzo, aveva fatto il chierichetto in modo talmente assiduo ed accurato che dicevano che leccasse addirittura le grandi candele da messa.

 

C’è un “Pisi”, il casanova del paese, da sempre entusiasta di psicologia e che suole sedurre le donne con i suoi argomenti, raccolti proprio nel tesoro della psicologia.

 

C’è un “Tapuli” e nessuno sa più, perché.

 

C’è un “Patapum” e si può immaginare che questo nome derivi dalla sua goffaggine.

 

C’è “la Matta”, una donna dall’enorme petto e dalla voce forte che pronuncia, più che altro, cose senza senso.

 

Nella mia casa abitava “Mariusciu”. Mariusciu, cioè Mario, amava parlare francese, che il suo interlocutore lo capisse o no.

 

Ci sono “Balé” e “Peci”, che conosceremo più tardi.

 

La parola “Barone” descrive al meglio l’atteggiamento, i gesti, la mimica, il modo di parlare che aveva sviluppato il Barone con l’andar del tempo e con l’entrata nella fase della saggezza. Provocava amore e rispetto intorno a lui e, se era scelto improvvisamente come preda di uno ‘scherzo’, lo affrontava con un silenzio superiore e pieno di dignità, nobilitandolo. Questo fatto, naturalmente, spingeva sempre di più la fantasia degli “scherzanti”, che tentavano di centrarlo, almeno una volta, con una ‘bomba’ che inducesse anche lui a ridere. Non ci sono mai riusciti.

 

Cugiu vuol dire ‘compare’ nel senso antico, ed era l’espressione con la quale il Barone si indirizzava agli altri. A me si rivolgeva chiamandomi “cugia”, ‘comare’. Quel “cugia” evocava un sentimento di familiarità, faceva pensare alle grandi abbuffate nelle feste di matrimonio e ai ‘cenoni’ che non si aveva mai goduto assieme a lui. Poiché era oculato, si potrebbe addirittura dire un po’ avaro, non partecipava mai alle feste. Un fatto che, naturalmente, nutriva anche lui la sorgente degli scherzi.

 

Nel frattempo, Cugiu è arrivato da noi che ci siamo radunati nel bar. Col passo di chi compie uno sforzo immane travalica la soglia. Un breve momento per prendere respiro: “Buon giorno a tutti”. Italiano classico, ufficiale. “Cume te stà, cugia?”

 

Il primo scherzo, normalmente, è quello di invitarlo a prendere un caffè. Lui risponde con un rifiuto salivato “l’ho già piglià a ca.”

 

Segue l’invito a giocare a carte. Lui non risponde nemmeno, pieno di dignità.

 

Si arriva alla discussione degli avvenimenti importanti nell’ ambito del paese, o, qualora mai non fosse successo nulla nel paese, nel mondo. L’unica reazione comprensibile è un “ma nu te digo”. Il mondo per lui è il paese, tutto lo stesso miscuglio.

 

Appena si installa la quiete, mi prende a lato: “Tu che sei dottore: me fa ma er genuccio”. Abbiamo in programma di far da mangiare e di cenare, assieme agli amici, in casa mia. Dato che il nostro appartamento si trova al quarto piano e che una mia amica, anche lei dottoressa, si trova da me in visita, decido di organizzare uno scherzo e lo invito per l’esame medico e per la fisioterapia, la sera alle 8. È d’accordo, perché, a quell’ora, in paese, tutti sono a cena, il vicolo è vuoto e nessuno lo vede trascinarsi su da noi. Teme le chiacchiere, e a ragione.

 

Siamo tutti su a cucinare e abbiamo aperto la porta verso la scala, affinché lui possa annusare i sapori meravigliosi e affinché noi possiamo sentirlo ansimare su per le scale. Basta avvertire il suo respiro rumoroso che già cominciamo a ridere lievemente e un ridere soffocato sviluppa una potenza vulcanica. Cominciamo a scommettere quanto tempo ci metterà per arrivare su da noi. Io che calcolo 25 minuti, ho ragione.

 

Gli vado incontro all’entrata e lo accompagno nella sala col divano. Lui vi si lascia cadere sopra, sollevato. La mia amica e io gli alziamo le gambe del pantalone per dare un’occhiata al ginocchio che gli fa male.

 

La parte maschia degli amici partecipa con fervore e non risparmia consigli affettuosi: “Attente, non troppo in alto! Risparmiate le parti sensibili!”: Non riusciamo ad alzare il pantalone al di sopra del ginocchio , e allora: “Giù il pantalone.”

 

Discretamente mandiamo in cucina gli amici. Adesso possiamo palpare il ginocchio; è così grasso che ambedue troviamo il posto per palpare contemporaneamente. Confronto con l’altra gamba: Il suo ginocchio sano non è più snello. Solo la visita e la palpazione, eseguite con impegno professionale, fa scomparire i dolori. Arriva il momento del “balsamo di tigre”, una “medicina mooolto efficace”. Nessuna di noi sembra mai stanco di spalmare, ungere, massaggiare, tutto in maniera molto sottile e tenera. Cugiu non fa a meno di sospirare per il benessere e il senso di guarigione. I ragazzi ridacchiano cucinando. Invitiamo il Cugiu a cena: “aua che ti è su”.

 

Più tardi ci regala un’ulteriore sua visita a casa nostra.

 

Questa volta basta l’invito a cena per fargli intraprendere ancora la salita difficile. Tutti sappiamo: 25 minuti, aggiungiamo ulteriori 5 minuti, e andiamo giusti. Lui non si fa togliere la pace dai nostri scherzi assiduamente inventati e divora una montagna di spaghetti, taciturno e in dignità. Tentiamo di bombardarlo con i nostri consigli: “Dovresti cercarti una donna e risposarti, allora avresti, ogni giorno, il tavolo così pieno di bontà come qui. Dopo lei ti curerebbe con amore e ti riscalderebbe durante la notte.”

 

Alla fine siamo tutti persuasi della bellezza della vita coniugale, eccetto lui.

 

Ogni volta che sto per andare al mare e lo incontro, chiedo ad alta voce, se mi accompagna a fare un bagno: “Te te tursi un po’.” Lui risponde facendo schioccare la lingua. Gli descrivo le gioie del bagno, di volta in volta più dettagliatamente:” Da 50 anni non ho più visto il mare.” Le persone intorno s’immaginano, Cugiu vestito in costume e hanno problemi a stare seri.

 

Arriva l’inverno, il che vuol dire: periodo tranquillo senza turisti e turiste. Con meraviglia di tutti appaiono insolitamente diverse coppie di donne da Berlino, la presenza delle quali porta a cottura gli ormoni maschili. Ma i più raffinati tentativi di seduzione non portano a nulla: Le ragazze sono lesbiche e si sentono rafforzate nel loro disprezzo del lover, e, soprattutto , del latin lover.

 

Presto i giovanotti devono arrendersi e cominciano di nuovo con il loro passatempo preferito: prendere per il culo.

 

Continua a piovere, diventa buio presto. Dopo cena, solo pochi uomini vanno al bar anche nelle serate, nelle quali non c’è una partita di calcio in televisione.

 

Il maestro di scherzi si chiama “Lara”. E’ un dottore rigorosamente scapolo. Ha immaginato che sarebbe divertente chiamare a casa, dal telefono del bar, i mariti assenti e, se risponde la moglie, di chiedere in falsetto del marito. Se invece è lui che alza la cornetta, subito lo si investe con un fuoco di fila di frasi hard, del genere seduzione sessuale al telefono. Il marito di solito riesce appena a stare in piedi e non osa più rispondere; ogni difesa potrebbe sembrare ancora più sospetta alla moglie.

 

Quando la voce arriva ai guaiti più espliciti butta giù il telefono e sospira. Nell’uno e nell’altro nasce il sospetto. Il marito si butta, munito di capotto e ombrello, in direzione bar, dove, nel frattempo, tutti sono seduti a giocare a carte, attentamente, dopo essersi quasi pisciati addosso dal ridere. Riescono a stare seri, non sanno niente.

 

Dopo la sua partenza, ricominciano le risate, si ripassa la storia e ogni argomento super sexy viene ripetuto tra le lacrime. Le risate più grandi esplodono ricordando le lodi di certi aspetti fisici del personaggio e, prima di tutto, di questo e quell’altro difettino o caratteristica fisica, come per esempio un naso grande, una gobba, delle gambe storte e delle palle pendenti.

 

Il sesso al telefono è un’ottima idea, perché gli uomini non osano parlarne tra di loro. Ognuno pensa di essere l’unico. E, di nascosto, ognuno pensa che, senza volerlo e senza saperlo, ha acceso un fuoco di passione. Solo con la sua apparizione….

 

Quelli con attributi particolari ricevono telefonate ripetute. Ogni volta, un difetto o un’imperfezione fisica, raccolgono le lodi più celesti, e vengono decantati come specialità che provocano l’amore, sotto mille sospiri. In casa, nel frattempo, c’è guerra. La moglie non può immaginare che uno qualsiasi del paese spenda dei soldi per far uno scherzo. Se il marito poi, pieno di rabbia, appare nel bar, tutti gli chiedono con compassione se a casa non è abbastanza comodo.

 

Cugiu, grazie a Dio, non ha né moglie né telefono in casa. Così può passare, in tranquillità, tutto l’inverno. La tranquillità prima della tempesta, perché la compagnia ha deliberato qualche cosa di speciale per la primavera.

 

Il progetto parte proprio quando la prima turista, una giovane ragazza, un sabato prima di pasqua appare nel bar e saluta con un sorriso Cugiu. Lara e gli amici dichiarano, il giorno dopo a Cugiu che la giovane donna si era mostrata molto entusiasta di lui e della sua apparizione e che lei, dopo che lui se ne era andato, si era interessata con fervore a lui. Ha chiesto anche dove abita. E, per dire la verità, uno di loro, al ritorno dei campi, l’aveva vista scodinzolare nella sua via. Le chiedono se ha avuto una visita per caso.

 

“È bellina.” Il suo unico commento, maestoso.

 

Al bar, la sera, lei sta prendendo il caffè quando il Cugiu entra. Lui la saluta come un gentiluomo, chiedendole “com’è andata la giornata?” Lei risponde: “Bravo, lei è un poeta.” Lui getta l’occhio di traverso e in giù, arrossendo.

 

Nei giorni seguenti Lara e la sua banda s’immaginano una storia inverosimile e si propongono di realizzarla.

 

Danno da bere a Cugiu che l’amante della giovane donna è arrivato e che si è arrabbiato ferocemente quando ha sentito parlare del suo flirt con lei e che ha chiesto subito dove abita. Loro con molto sforzo sono riusciti a non svelarlo. Il fidanzato poi ha minacciato di andarlo a cercare e ha giurato che lo troverà. Gli dicono che la giovane ha delle macchie sul collo per i suoi baci (immaginarsi le risate soppresse!) e che il suo amico sospetta che lei sia stata violentata perché mai al mondo avrebbe fatto volontariamente una cosa del genere: tradirlo. C’era solo da sperare che lei non fosse incinta.

 

Il Cugiu oscilla tra sdegno e lusinga. Dignitosamente non dice nulla. Gli altri aggiungono che, mai al mondo, avrebbero pensato che lui fosse un’amante così acceso.

 

Dalla paura lui non esce più di casa. Passati alcuni giorni osa finalmente uscire.

 

Appena entra nel bar, c’è nervosismo dovunque. I presenti chiedono: “Ma non hai incontrato, venendo qua, il giovane fusto? È appena uscito dopo aver chiesto di te. Senz’altro ritornerà.”

 

All’ uscita posteriore del bar c’è un piccolo sgabuzzino, nel quale il barista conserva scatole usate e bottiglie vuote . Da tempo non lo ha più pulito. Gli amici aiutano Cugiu a rintanarsi lì. Lo schiacciano dietro i cartoni, tirandone fuori alcuni per celarlo.

 

Prima di lasciarlo lo assicurano che sarebbero venuti a prenderlo, appena l’aria fosse stata più pulita. L’ultimo consiglio è di trattenere il respiro, per non essere sentito.

 

Poi si ritirano nel bar e si pisciano addosso dal ridere. La risata più tremenda segue alla conferma: “Ci sta credendo veramente.”

 

Solo dopo due ore, lo vanno a liberare. Lui è senza fiato, completamente distrutto e pallido dallo sforzo.

 

E così decidono di finirla lì e gli raccontano che la ragazza è partita assieme all’amico, non senza ordinare a loro di trasmettere i suoi saluti più cari al “Barone”.

 

Per qualche tempo viene risparmiato dagli scherzi. Tutti sanno benissimo che la messa in scena era stata portata veramente al limite. Così regalano i loro doni ad altri.

 

Al colmo dell’estate, in una giornata incredibilmente afosa, nella quale solo pochi vanno al mare perché il sole brucia infernalmente dal cielo, Cugiu, meravigliando tutti, si avvia verso la spiaggia a piedi. In tanti lo consigliano di non andarci, lui però parte tenace.

 

Due ore dopo, al paese giunge la notizia che “Il Barone” è morto nell’acqua del mare. Le onde erano piccole, nessun pericolo, lui sapeva nuotare.






Cugiu

Cugiu

 

Ho conosciuto “il Barone“ ossia “Cugiu“, quando avevo una trentina di anni e soggiornavo, allora moglie di Nicola, spesso a Corniglia.

 

In quei tempi già parlavo bene l’italiano e anche un po’ di dialetto ligure. Avevo molto tempo, poiché il marito, appena ritornato nella sua patria, partiva per andare a pescare in alto mare e non si faceva più vedere per parecchio tempo. Per non sentirmi sola e per evitare che le mie corde vocali si asciugassero e si incollassero, ogni sera scendevo giù in paese. Esattamente all’ora in cui tutti si riunivano per chiacchierare un po’, quasi per un‘antipasto’.

 

Il Barone era sferico come una botte, di piccola statura e con una faccia tonda, che entrava direttamente, senza collo, nel suo torace enorme ed enfisematico. Maestosamente e con passo lento si avvicinava al gruppetto riunito. Dato che la via centrale del paese andava un po’ in salita, era costretto a fermarsi dopo pochi passi, per prendere aria. Così, il suo avvicinarsi veniva registrato in tempo ed ognuno si immaginava velocemente il modo in cui lo si sarebbe potuto prendere in giro.

 

Questa abitudine, ancora oggi, ha una grande tradizione nel paese di Corniglia. A cominciare dal fatto che per ogni abitante – che sia nato lì o che sia venuto da fuori – inventano un soprannome plastico che, con l’andar del tempo, si sostituisce al nome di battesimo, spodestandolo. Questo soprannome mette in luce – pars pro toto – il tratto più caratteristico della persona, e diventa, nello stesso tempo - pars in toto – una pietra nel mosaico colorato e splendido del paese.

C’è un “Leccalumi”, un parsimonioso ingegnere allora quasi sessantenne, cittadino, rispettato da tutti, il quale, da ragazzo, aveva fatto il chierichetto in modo talmente assiduo ed accurato che dicevano che leccasse addirittura le grandi candele da messa. 

 

C’è un “Pisi”, il casanova del paese, da sempre entusiasta di psicologia e che suole sedurre le donne con i suoi argomenti, raccolti proprio nel tesoro della psicologia. 

C’è un “Tapuli” e nessuno sa più, perché.

C’è un “Patapum” e si può immaginare che questo nome derivi dalla sua goffaggine.

C’è “la Matta”, una donna dall’enorme petto e dalla voce forte che pronuncia, più che altro, cose senza senso.

Nella mia casa abitava “Mariusciu”. Mariusciu, cioè Mario, amava parlare francese, che il suo interlocutore lo capisse o no.

Ci sono “Balé” e “Peci”, che conosceremo più tardi.

La parola “Barone” descrive al meglio l’atteggiamento, i gesti, la mimica, il modo di parlare che aveva sviluppato il Barone con l’andar del tempo e con l’entrata nella fase della saggezza. Provocava amore e rispetto intorno a lui e, se era scelto improvvisamente come preda di uno ‘scherzo’, lo affrontava con un silenzio superiore e pieno di dignità, nobilitandolo. Questo fatto, naturalmente, spingeva sempre di più la fantasia degli “scherzanti”, che tentavano di centrarlo, almeno una volta, con una ‘bomba’ che inducesse anche lui a ridere. Non ci sono mai riusciti.

 

Cugiu vuol dire ‘compare’ nel senso antico, ed era l’espressione con la quale il Barone si indirizzava agli altri. A me si rivolgeva chiamandomi “cugia”, ‘comare’. Quel “cugia” evocava un sentimento di familiarità, faceva pensare alle grandi abbuffate nelle feste di matrimonio e ai ‘cenoni’ che non si aveva mai goduto assieme a lui. Poiché era oculato, si potrebbe addirittura dire un po’ avaro, non partecipava mai alle feste. Un fatto che, naturalmente, nutriva anche lui la sorgente degli scherzi.

Nel frattempo, Cugiu è arrivato da noi che ci siamo radunati nel bar. Col passo di chi compie uno sforzo immane travalica la soglia. Un breve momento per prendere respiro: “Buon giorno a tutti”. Italiano classico, ufficiale. “Cume te stà, cugia?”

Il primo scherzo, normalmente, è quello di invitarlo a prendere un caffè. Lui risponde con un rifiuto salivato “l’ho già piglià a ca.”

Segue l’invito a giocare a carte. Lui non risponde nemmeno, pieno di dignità.

Si arriva alla discussione degli avvenimenti importanti nell’ ambito del paese, o, qualora mai non fosse successo nulla nel paese, nel mondo. L’unica reazione comprensibile è un “ma nu te digo”. Il mondo per lui è il paese, tutto lo stesso miscuglio.

Appena si installa la quiete, mi prende a lato: “Tu che sei dottore: me fa ma er genuccio”. Abbiamo in programma di far da mangiare e di cenare, assieme agli amici, in casa mia. Dato che il nostro appartamento si trova al quarto piano e che una mia amica, anche lei dottoressa, si trova da me in visita, decido di organizzare uno scherzo e lo invito per l’esame medico e per la fisioterapia, la sera alle 8. È d’accordo, perché, a quell’ora, in paese, tutti sono a cena, il vicolo è vuoto e nessuno lo vede trascinarsi su da noi. Teme le chiacchiere, e a ragione. 

Siamo tutti su a cucinare e abbiamo aperto la porta verso la scala, affinché lui possa annusare i sapori meravigliosi e affinché noi possiamo sentirlo ansimare su per le scale. Basta avvertire il suo respiro rumoroso che già cominciamo a ridere lievemente e un ridere soffocato sviluppa una potenza vulcanica. Cominciamo a scommettere quanto tempo ci metterà per arrivare su da noi. Io che calcolo 25 minuti, ho ragione. 

Gli vado incontro all’entrata e lo accompagno nella sala col divano. Lui vi si lascia cadere sopra, sollevato. La mia amica e io gli alziamo le gambe del pantalone per dare un’occhiata al ginocchio che gli fa male. 

La parte maschia degli amici partecipa con fervore e non risparmia consigli affettuosi: “Attente, non troppo in alto! Risparmiate le parti sensibili!”: Non riusciamo ad alzare il pantalone al di sopra del ginocchio , e allora: “Giù il pantalone.” 

Discretamente mandiamo in cucina gli amici. Adesso possiamo palpare il ginocchio; è così grasso che ambedue troviamo il posto per palpare contemporaneamente. Confronto con l’altra gamba: Il suo ginocchio sano non è più snello. Solo la visita e la palpazione, eseguite con impegno professionale, fa scomparire i dolori. Arriva il momento del “balsamo di tigre”, una “medicina mooolto efficace”. Nessuna di noi sembra mai stanco di spalmare, ungere, massaggiare, tutto in maniera molto sottile e tenera. Cugiu non fa a meno di sospirare per il benessere e il senso di guarigione. I ragazzi ridacchiano cucinando. Invitiamo il Cugiu a cena: “aua che ti è su”.

Più tardi ci regala un’ulteriore sua visita a casa nostra.

Questa volta basta l’invito a cena per fargli intraprendere ancora la salita difficile. Tutti sappiamo: 25 minuti, aggiungiamo ulteriori 5 minuti, e andiamo giusti. Lui non si fa togliere la pace dai nostri scherzi assiduamente inventati e divora una montagna di spaghetti, taciturno e in dignità. Tentiamo di bombardarlo con i nostri consigli: “Dovresti cercarti una donna e risposarti, allora avresti, ogni giorno, il tavolo così pieno di bontà come qui. Dopo lei ti curerebbe con amore e ti riscalderebbe durante la notte.”

Alla fine siamo tutti persuasi della bellezza della vita coniugale, eccetto lui.

 

Ogni volta che sto per andare al mare e lo incontro, chiedo ad alta voce, se mi accompagna a fare un bagno: “Te te tursi un po’.” Lui risponde facendo schioccare la lingua. Gli descrivo le gioie del bagno, di volta in volta più dettagliatamente:” Da 50 anni non ho più visto il mare.” Le persone intorno s’immaginano, Cugiu vestito in costume e hanno problemi a stare seri.

Arriva l’inverno, il che vuol dire: periodo tranquillo senza turisti e turiste. Con meraviglia di tutti appaiono insolitamente diverse coppie di donne da Berlino, la presenza delle quali porta a cottura gli ormoni maschili. Ma i più raffinati tentativi di seduzione non portano a nulla: Le ragazze sono lesbiche e si sentono rafforzate nel loro disprezzo del lover, e, soprattutto , del latin lover.

Presto i giovanotti devono arrendersi e cominciano di nuovo con il loro passatempo preferito: prendere per il culo.

Continua a piovere, diventa buio presto. Dopo cena, solo pochi uomini vanno al bar anche nelle serate, nelle quali non c’è una partita di calcio in televisione.

Il maestro di scherzi si chiama “Lara”. E’ un dottore rigorosamente scapolo. Ha immaginato che sarebbe divertente chiamare a casa, dal telefono del bar, i mariti assenti e, se risponde la moglie, di chiedere in falsetto del marito. Se invece è lui che alza la cornetta, subito lo si investe con un fuoco di fila di frasi hard, del genere seduzione sessuale al telefono. Il marito di solito riesce appena a stare in piedi e non osa più rispondere; ogni difesa potrebbe sembrare ancora più sospetta alla moglie. 

Quando la voce arriva ai guaiti più espliciti butta giù il telefono e sospira. Nell’uno e nell’altro nasce il sospetto. Il marito si butta, munito di capotto e ombrello, in direzione bar, dove, nel frattempo, tutti sono seduti a giocare a carte, attentamente, dopo essersi quasi pisciati addosso dal ridere. Riescono a stare seri, non sanno niente. 

 

Dopo la sua partenza, ricominciano le risate, si ripassa la storia e ogni argomento super sexy viene ripetuto tra le lacrime. Le risate più grandi esplodono ricordando le lodi di certi aspetti fisici del personaggio e, prima di tutto, di questo e quell’altro difettino o caratteristica fisica, come per esempio un naso grande, una gobba, delle gambe storte e delle palle pendenti.

Il sesso al telefono è un’ottima idea, perché gli uomini non osano parlarne tra di loro. Ognuno pensa di essere l’unico. E, di nascosto, ognuno pensa che, senza volerlo e senza saperlo, ha acceso un fuoco di passione. Solo con la sua apparizione….

Quelli con attributi particolari ricevono telefonate ripetute. Ogni volta, un difetto o un’imperfezione fisica, raccolgono le lodi più celesti, e vengono decantati come specialità che provocano l’amore, sotto mille sospiri. In casa, nel frattempo, c’è guerra. La moglie non può immaginare che uno qualsiasi del paese spenda dei soldi per far uno scherzo. Se il marito poi, pieno di rabbia, appare nel bar, tutti gli chiedono con compassione se a casa non è abbastanza comodo.

Cugiu, grazie a Dio, non ha né moglie né telefono in casa. Così può passare, in tranquillità, tutto l’inverno. La tranquillità prima della tempesta, perché la compagnia ha deliberato qualche cosa di speciale per la primavera.

Il progetto parte proprio quando la prima turista, una giovane ragazza, un sabato prima di pasqua appare nel bar e saluta con un sorriso Cugiu. Lara e gli amici dichiarano, il giorno dopo a Cugiu che la giovane donna si era mostrata molto entusiasta di lui e della sua apparizione e che lei, dopo che lui se ne era andato, si era interessata con fervore a lui. Ha chiesto anche dove abita. E, per dire la verità, uno di loro, al ritorno dei campi, l’aveva vista scodinzolare nella sua via. Le chiedono se ha avuto una visita per caso.

“È bellina.” Il suo unico commento, maestoso. 

Al bar, la sera, lei sta prendendo il caffè quando il Cugiu entra. Lui la saluta come un gentiluomo, chiedendole “com’è andata la giornata?” Lei risponde: “Bravo, lei è un poeta.” Lui getta l’occhio di traverso e in giù, arrossendo.

Nei giorni seguenti Lara e la sua banda s’immaginano una storia inverosimile e si propongono di realizzarla.

Danno da bere a Cugiu che l’amante della giovane donna è arrivato e che si è arrabbiato ferocemente quando ha sentito parlare del suo flirt con lei e che ha chiesto subito dove abita. Loro con molto sforzo sono riusciti a non svelarlo. Il fidanzato poi ha minacciato di andarlo a cercare e ha giurato che lo troverà. Gli dicono che la giovane ha delle macchie sul collo per i suoi baci (immaginarsi le risate soppresse!) e che il suo amico sospetta che lei sia stata violentata perché mai al mondo avrebbe fatto volontariamente una cosa del genere: tradirlo. C’era solo da sperare che lei non fosse incinta. 

 

Il Cugiu oscilla tra sdegno e lusinga. Dignitosamente non dice nulla. Gli altri aggiungono che, mai al mondo, avrebbero pensato che lui fosse un’amante così acceso. Dalla paura lui non esce più di casa. Passati alcuni giorni osa finalmente uscire.Appena entra nel bar, c’è nervosismo dovunque. I presenti chiedono: “Ma non hai incontrato, venendo qua, il giovane fusto? È appena uscito dopo aver chiesto di te. Senz’altro ritornerà.” 

All’ uscita posteriore del bar c’è un piccolo sgabuzzino, nel quale il barista conserva scatole usate e bottiglie vuote . Da tempo non lo ha più pulito. Gli amici aiutano Cugiu a rintanarsi lì. Lo schiacciano dietro i cartoni, tirandone fuori alcuni per celarlo. 

 

Prima di lasciarlo lo assicurano che sarebbero venuti a prenderlo, appena l’aria fosse stata più pulita. L’ultimo consiglio è di trattenere il respiro, per non essere sentito. Poi si ritirano nel bar e si pisciano addosso dal ridere. La risata più tremenda segue alla conferma: “Ci sta credendo veramente.”

Solo dopo due ore, lo vanno a liberare. Lui è senza fiato, completamente distrutto e pallido dallo sforzo. 

E così decidono di finirla lì e gli raccontano che la ragazza è partita assieme all’amico, non senza ordinare a loro di trasmettere i suoi saluti più cari al “Barone”.

 

Per qualche tempo viene risparmiato dagli scherzi. Tutti sanno benissimo che la messa in scena era stata portata veramente al limite. Così regalano i loro doni ad altri.

 

Al colmo dell’estate, in una giornata incredibilmente afosa, nella quale solo pochi vanno al mare perché il sole brucia infernalmente dal cielo, Cugiu, meravigliando tutti, si avvia verso la spiaggia a piedi. In tanti lo consigliano di non andarci, lui però parte tenace.

Due ore dopo, al paese giunge la notizia che “Il Barone” è morto nell’acqua del mare. Le onde erano piccole, nessun pericolo, lui sapeva nuotare.

 

Balé

Balé era vedovo.

 

Ne soffriva tanto, perché sentiva ancora la vita dentro di se.

 

Balé era pensionato. Godeva di tre pensioni: una della ferrovia, una dei coltivatori diretti e una come vedovo.

 

Balé era piccolo e impacciato. Aveva un occhio di vetro e una gobba. Coll’andar del tempo il suo corpo era diventato curvo, piegato quasi ad angolo retto.

 

Ogni sera, dopo la cena solitaria, arriva nel bar per gustare il caffè.

 

Si appoggia al banco, tutto piegato, e quando il barista gli chiede “cosa prendi “, risponde: “Fa un caffè.”

 

In quel momento si raddrizza per ricadere immediatamente dopo in posizione ortogonale. Si aiuta a raddrizzarsi, movendo il braccio destro come per avvitarsi su.

 

Appena il caffè fumante si trova davanti a lui, lo annusa prima di vederlo, si riavvita in posizione eretta e prende il manico della tazzina tra il pollice e il medio. Appoggia la tazzina al labbro inferiore e si piega, con uno sforzo inumano, all’indietro, usando lo slancio e catapultando il caffè in gola con la velocità della luce; poi ritorna in squadra, roba di un secondo.

 

Non proprio un godimento. La sua gobba lo rimette in posizione, e così, pendolando, apre il portafoglio per cercare 200 lire che butta sul banco. Senza un “buona sera”, né un “arrivederci”, esce.

 

Qualche sera speciale, durante l’inverno, rimane più a lungo nel bar.

 

Una volta anch’io, sono seduta al tavolino, perché in casa fa freddo e mi annoio da sola. Mi accorgo che mi guarda e dice al suo vicino: “Avere 50 anni di meno…” Non dieci, non venti! Cinquanta!

 

All’inizio ascolta gli altri appoggiandosi al banco senza dire niente. Ma arriva il momento in cui non può più fare a meno di commentare quello che ha sentito. Lo sputa fuori con fervore e in un tono militare. Un commento il più delle volte distruttivo. Quelli invece che non hanno subito la sua acida censura lo invitano a una partita a carte. Tutti sanno benissimo che si arrabbia facilmente, se non vince. E così’ succede.

 

La ‘Briscola’ si gioca in quattro. I due seduti di fronte giocano insieme. Comunicano a forza di sguardi e con la mimica. Dato che i gli avversari li possono osservare, la comunicazione deve avvenire velocemente, in un lampo. 

 

Si racconta che una volta, un cornigliese aveva come compagno di briscola uno che soffriva di un forte tic nervoso. Succedeva che una salve di movimenti si scaricavano sul suo viso e scuotevano la sua testa in modo furioso e il tutto peggiorava quando era nervoso. Coll’andare del gioco, la situazione per il signor tic e il suo socio non si era sviluppata a loro favore; il nervoso veniva a galla. Il compagno guardava attentamente nella faccia di fronte e vedeva un terremoto. Di conseguenza butto’ giù il rè. Questo fu l’inizio della fine. I due persero vergognosamente, senza aver vinto una mano. Il signor tic, che con le parole era piuttosto incontinente, non riuscì più a frenarsi e strepitò come un carrettiere. Il suo compagno, essendo un gentiluomo, rinunciò a giustificarsi. Ma non si accoppiò mai più con lui.

 

In fondo, ogni gioco finisce con una discussione rumorosa. Ogni singola mano viene analizzata, dalla fine all’inizio – esattamente come si fa con le barzellette. Prima si racconta la barzelletta; poche risate. Poi arriva la spiegazione cominciando dalla fine e arrivando all’inizio, passo dopo passo: come e perché, dato che aveva detto prima così, ma poi, capisci, lei aveva fatto quello, ma, e cosi via – un’analisi tegliente. Adesso tutti ridono. 

 

Assistendo a un gioco di carte, si può, dopo la fine di ogni mano, imparare un tesoro di parolacce, arricchendo infinitamente il proprio vocabolario. 

 

Balé si siede, dopo essere stato invitato mille volte, al tavolo per una partita. Tutti i presenti formano un cordone attorno. Prevedono che sarà molto divertente. Le prime mani passano in modo normale. Finito il quarto giro, Balé salta su nervoso, perché ha perso per la quarta volta. Gli altri, vedendo avvicinarsi la fine del loro divertimento lo richiamano : “Dove vai?” Balé, raddrizzando un poco la gobba: “M’en vago a ca, dritto cume una candeia.”

 

La sua vera passione è la pesca. Se non trova un compagno con la barca, pesca dagli scogli. Si vede, da lontano, una figura china che con la gamba destra leggermente avanzata si dondola dalla gamba destra a quella sinistra; l’unico occhio vispo concentrato sul galleggiante. L’occhio di vetro ancora più concentrato. Mentre lo guardo, un pesciolino che ha abboccato gli tira la canna dalla mano. Che tarantella!

 

Una domenica riesce a trovare un compagno con barca. Il compagno è cieco e contento di aver trovato uno con almeno un occhio. Si mettono d’accordo di andare prima a fare muscoli, per poi poterli mettere all’amo e pescare. I muscoli crescono sugli scogli, immediatamente sotto il livello dell’acqua. Si dividono il lavoro in modo seguente: Balé a poppa, remando, perché vede dove andare. Il cieco a prua come polena, pronto di saltare sul sasso appena Balé annuncia che sono arrivati.

 

Balé rema, rema, colpo dopo colpo. Improvvisamente, Balé esclama: “Aua ghe semu!” Una mosca gli è finita nell’occhio, nell’unico occhio a bordo. Non vede più nulla. Il cieco interpreta che sono arrivati presso lo scoglio, e salta nell’acqua. Non mi ricordo bene, se sapeva nuotare.

 

Balé è sempre in cerca di una moglie. Dato che, finora, non ha avuto successo con le donne del paese – fossero anche vecchie o vedove – si concentra su di me. Potrei divorziare. Diventa dolce come il miele, accetta che lo chiami ‘Balettino’ – se lo racconto oggi nessuno mi crede. Un giorno, arrivando col treno da Levanto, dove ha ritirato le sue tre pensioni, vede che sono seduta nella sala di attesa della stazione di Corniglia, aspettando il treno per La Spezia. Entra, butta la borsa, modello 1930, di cuoio strapazzato, sul tavolo. Con sforzo la apre e fa sgorgare un mucchio di ‘palanche. “Che te sá: son un uomo da spusa.”

 

È morto solo.

 

Peci

Peci era uno scapolo di fede, con le donne non sapeva fare nulla, neppure parlare. Anche se aveva un fisico bello, la faccia ben formata, le sopracciglia pronunciate e la figura alta, slanciata e muscolosa. Era una persona tranquilla, quasi timida, ben educata. Passava i suoi giorni nei campi. A partire dalla infanzia si era abituato a vivere così. Li teneva curati alla meraviglia. Molti anni fa aveva piantato, qui e là, alberi da frutto in mezzo alle vigne ed anche qualche cespuglio di fiori, di salvia e rosmarino. Tutto quello che serve a far godere l’occhio e il palato. 

Su qualche terrazzo avevo piantato dei bei ‘bocchi’ di verdura. Le sue raccolte di olive, di frutta e verdura e la vendemmia di uva erano abbondanti.

 

A quel che si ricorda, Peci non aveva fatto altro lavoro. Così, con la sua pensione minima statale doveva cercare di vivere spendendo il meno possibile per i viveri.

 

Abitava nell’unico palazzo dei Fieschi a Corniglia.

 

Corniglia era stata il più estremo punto a est del potere dei Fieschi. La ragione, per la quale questa famiglia patrizia aveva costruito, proprio lì, un palazzo regale: era quello di dimostrare, a tutti quelli che arrivavano dal territorio dei guelfi, cosa volesse dire potere e lusso. Ma anche i guelfi si diedero da fare moltiplicandosi meravigliosamente, cosicché, ancora oggi, la maggior parte delle famiglie di Corniglia si chiama ‘Guelfi’.

 

Peci e il suo fratello-gemello, che nessuno di noi ha ma visto in paese, avevano ereditato insieme il palazzo bellissimo. Questo vuol dire che erano gli ultimi discendenti della famiglia Fieschi, senza figli. L’eredità, poco dopo, provocò litigi e discordia. Così, i due fratelli decisero di dividere a metà il palazzo, da su in giù; ognuno di loro avrebbe continuato a vivere nella sua parte. Come conseguenza, l’immenso salone, dipinto di affreschi e munito di stucchi meravigliosi, venne diviso esattamente a metà con un muretto grezzo, mai intonacato. I due fratelli non avevano i soldi per mantenere il palazzo, tanto meno per risanarlo.

 

Peci dorme nella sua parte del salone. Per non morire dal freddo in quella stanza dal soffitto altissimo accende un fuoco a legna. Così, gli affreschi invecchiano più velocemente di lui.

 

In cucina, sembra, non dispone di nessun fornello. Si pensa che la vecchia cucina sia toccata al fratello e che ”Peci” abbia solo messo un tavolo in qualche stanza, sul quale può aprire le scatolette che lui compra , oltre il pane.

 

Quando va in negozio chiede dei “sottaccetelli”. Assieme alla verdura che ha raccolto, questo è l’unico suo cibo. Alla sera, nel bar, si permette ancora un confettino dolce come dessert.

 

Peci raramente racconta. Io l’ho sentito raccontare solo due volte. E ogni volta si trattava di un miracolo.

 

Il primo miracolo, l’aveva vissuto lui stesso. Aveva innestato un arancio, piantato dai genitori, con un limone; i limoni servivano di più. Per tanti anni l’albero aveva portato frutti. Dopo un inverno molto gelido, Peci vuole raccogliere qualche limone. Ma sull’albero trova solo degli aranci. Non può credere ai suoi occhi. “È l’è a natua. Noiautri nu podemo fa nulla.”

 

Il secondo miracolo, del quale mi parlava spesso e volentieri da quando aveva saputo - e sentito dal mio dialetto - che ero sposata a Volastra, un paese in alto sul monte, è questo:

 

Quando i saraceni, che avevano seminato il terrore su tutte le coste del Mediterraneo per 500 anni, erano sbarcati sulla spiaggia di Corniglia, le guardie avvisarono la gente di Volastra – situata all’altezza di 400 metri sopra il mare – che i pirati stavano per arrivare.

 

Le donne del paese radunavano in fretta i gioielli, gli uomini toglievano le campane, fatte tutte d’oro, dal campanile; il tutto veniva nascosto in una caverna sotto i campi di vino – Volastra è in una zona molto carsica, piena di grotte, che fino ad oggi, non si sa dove vanno a finire; sono grotte molto pericolose e se qualcuno ci cade dentro può smarrirsi facilmente come è gia successo. I Saraceni, mezz’ora dopo, erano già arrivati in paese. Una prova di gran forma sportiva se si pensa che, la maggior parte del loro tempo lo passavano a bordo delle loro galere, senza potersi muovere granché. Deportavano tutta la popolazione, gli uomini per remare sulle galere, le donne negli harem orientali e i bambini per educarli a diventare giannizzeri turchi. Così, nessuno si ricordava della grotta e del tesoro. “Anca anché tutto l’ou è nascosto suttu terra.” Peci sogna con lo sguardo lontano.

 

Nel periodo degli scherzi, anche Peci è una preda; anche se è vero, che la fantasia ha i suoi limiti, perché Peci è così taciturno che nessuno, l’ha mai visto in un attacco di rabbia o esprimere un qualsiasi sentimento . Nessuno conosce un episodio della sua vita. Quindi non è possibile immaginare uno scherzo fatto su misura.

 

La sua parsimonia rimane l’unico punto d’attacco. Perciò Lara e gli amici prendono una moneta da 100 Lire, ci fanno un buco e la fissano con un filo elastico, trasparente. Quando Peci si associa al gruppetto di amici che si è radunato in piazza nel buio dopo il tramonto, per dare alle donne il tempo di preparare la cena (Peci arriva dalla spesa con i “sottaccettelli”) uno di loro getta in terra la moneta preparata e la ritira immediatamente. “Peci”, che ha sentito un rumore metallico, guarda per terra e cerca assiduamente il soldo. Rifanno lo scherzo due o tre volte, poi nel gruppo nascono i commenti: “Peci, hai la tasca bucata!” “Devi essere molto ricco perché butti via i soldi.” Lo aiutano a cercare per terra, con fervore. Poiché non riescono a trovare nulla, lo rimproverano che lui li sta prendendo per il culo.

 

Una sera si parla di fichi. Dico che sono il mio frutto preferito. Un albero biblico. Il giorno dopo, davanti alla mia porta, trovo un cestino pieno di fichi dolci. Peci!

 

Un inverno la gente si accorge che non vede Peci da parecchi giorni.

 

Lo hanno trovato morto, sdraiato sul suo letto nel salone brutalmente diviso, nel palazzo Fieschi. Le figure degli affreschi non si sono accorte di nulla.

Ofelio

Ho conosciuto Ofelio, quando soggiornavo a Riomaggiore per studiare e prepararmi a un esame di medicina; le giornate erano così noiose che, a volte, scappavo per andare per ‘cantina’. 

 

Riomaggiore era piena di cantine; ogni casa aveva la sua nel pianterreno, perché ogni famiglia produceva il suo vino.

 

Ofelio giungeva spesso da Biassa dove, essendo vedovo, viveva solo e si annoiava. Appena arrivato, cominciava il suo giro per cantine con un corteo di amici che di cantina in cantina diventava sempre più consistente. A un certo momento mi ci aggiungevo anch’io. Si mangiava pane bianco con acciughe sotto sale; così la sete si accendeva infinitamente. Si beveva il vino bianco color dell’ambra, col suo sapore di salmastro e di mare.

 

Ofelio, a partire da un certo punto del giro delle cantine, soleva brontolare contro le vedove della sua età. Le accusava di aver fatto finire i loro mariti sotto terra per godere dei loro soldi e anche per cercarsi un nuovo marito. Lui, diceva, come vedovo era un uomo richiestissimo dalle donne, tanto che a fatica riusciva a difendersi dai loro attacchi. 

 

A pensarci bene, col senno di poi sono dell’avviso che quei discorsi erano i primi segni di un suo innamoramento.

 

Cominciava a raccontarmi di sua moglie, che era morta in giovane età per un infarto. Diceva di essersi capito così bene con lei, di aver fatto tutto insieme a lei. Tutto il lavoro nei campi di Tramunti, dove possedevano anche una piccola casa fatta di legno, nella quale potevano conservare gli attrezzi. Lì, nei giorni belli d’estate, mangiavano e riposavano all’ombra delle vigne e d’inverno si facevano riscaldare dai raggi tiepidi del sole.

 

Per anni era stato triste. Lei gli mancava ancora.

 

Tentavo di consolarlo: “La vita non è ancora finita, dietro il prossimo angolo, forse, c’è la felicità”. Così parlavamo spesso.

 

Un giorno, la terra a Riomaggiore cominciò a bruciarmi sotto i piedi: Ritornando a casa, una sera, trovai in strada un piccolo pacchetto avvolto in carta stagnola. Lo presi e lo portai a casa. Lo aprii. Uscì un piccolo blocchetto marrone che profumava stranamente. Non avevo nessuna esperienza nel mondo delle droghe. Solo più tardi intuii che cosa poteva essere.

 

Il giorno dopo portai il corpo del reato ai Carabinieri di Riomaggiore. Lo sequestrarono e fecero un protocollo con tutti i miei dati personali e la storia del rinvenimento. La mattina dopo, tutti i quattro pneumatici della mia macchina erano foracchiati. Questo mi allarmò. 

 

Ne parlai a Ofelio e lui mi cercò un piccolo appartamento a Biassa, nella casa accanto alla sua. Subito, nella prima notte dopo il mio trasloco, ci fu una rissa tra i ragazzi di Biassa e un gruppo venuto da Riomaggiore. Ofelio prese il fucile dall’armadio e lo pose accanto alla finestra dalla quale poteva vedere la mia dimora. Era pronto di difendermi con le unghie e coi denti .

 

Dato che adesso abitavamo a portata d’occhio, ci incontravamo a ogni piè sospinto. Mi invitava nella sua casetta a Tramunti, dove, un bel giorno, mi confessò il suo amore. Io lo contraccambiavo con un’amicizia profonda e piena di rispetto.

 

Nel frattempo avevo finito i miei studi, mi ero sposata e avevo cominciato a lavorare. I miei viaggi nelle Cinqueterre erano diventati rari e limitati alla famiglia. Ofelio mi scrisse due lettere meravigliose, che meritarono una bella risposta.

 

Un giorno mi avvisarono che Ofelio era stato colpito da un ictus. Mio marito e io corremmo subito a Biassa per vederlo. Lo trovammo seduto nella poltrona. Era un po’ debole, ma poteva parlare. Non si ricordava di me, non sapeva nemmeno chi fosse quella persona davanti a lui. Di mio marito, che aveva conosciuto già da ragazzino, invece si ricordava benissimo.

 

Poco dopo ci dissero che era morto.

2004

Molti anni più tardi ero, assieme alla mia amica Gisela, nelle Cinqueterre. Decidemmo di fare una visita a tutti gli amici morti.

 

Comprammo quattro rose rosse.

 

Tre le posammo sulle tombe di Cugiu, di Peci e di Balé.

 

Al cimitero di Biassa cercammo a lungo l’ultima dimora di Ofelio.

 

All’angolo vedemmo tre vedove che chiacchieravano. Domandammo della tomba di Ofelio – ce la mostrarono.

Il General Maria (2010/2011)

 

 

Minestrone

 

Come il minestrone: cotto nella stagione fredda, composto da molte essenze sane, meglio se riscaldato diverse volte – cosí sono le storie: fantasie fatte di sensazioni e profumi, di frasi eccezionali, a lungo e di nascosto masticate nella mente, ripetutamente ribollite e raccontate, si sciolgono in bocca e ci riscaldano l’anima.

 

Da una pentola così appare la nostra protagonista, il general Maria.

 

L’ho conosciuta quando aveva 73 anni. Sembrava non fosse colpita dal castigo dell’età e non nascondeva il fatto che continuava a camminare ben diritta nelle strade della vita. Non si poteva certo metterle i piedi in testa. Riempiva il suo posto e prendeva il suo spazio, con le buone o con le cattive; suo marito e i suoi figli si erano infranti contro di lei. La figlia se ne era andata lontano.

 

I suoi occhi blu, ancora belli, scintillavano di scaltrezza e di voglia di vivere. Era curiosa e aveva sete di sapere. Non beveva alcool, neppure il vino fatto da lei; si dissetava ascoltando i racconti degli ospiti e si ubriacava della propria vita.

 

Era una cuoca meravigliosa; in questa regione un fatto non proprio raro.

 

Faceva parte di una popolazione che aveva fatto grandi viaggi intorno al mondo, conservando a casa, allo stesso tempo, le abitudini e i modi di fare antichi. Questa gente, laconica e quadrisillaba con gli stranieri, non si interessava all’andamento del mondo e meno ancora - che Dio ci salvi! – a fatti culinari strani.

 

Una volta guadagnata la loro amicizia, ti regalavano generosamente le loro squisitezze e i loro racconti.

 

Abitava nella vicina vallata, nell’anfiteatro fatto dalle vigne e dagli uliveti. La sera, seduti a cena, potevamo sentire le sue prediche, con le quali, ad alta voce, metteva a posto marito e figli. Sicuramente aveva cotto un minestrone, solamente per attirarli al tavolo e per tenerli nella sua volta acustica.

 

 

Nati uguali

 

Al tempo della sua nascita, negli anni 30, c’erano pochi soldi e molti figli. Che crescevano così come erano arrivati, senza che nessuno ci avesse pensato su due volte e senza un proposito deliberato.Da bambini giocavano nel fango, i loro compagni erano gli insetti e i vermi; nella prima estate, la natura regalava loro il miracolo delle lucciole e dei ciliegi carichi di frutti dolci che potevano raggiungere solo adoperando astuzia sportiva e fantasia tecnica.

 

Presto venivano integrati nel lavoro dei genitori, il che vuol dire che dovevano lavorare assieme a loro, tutti, ragazzi o ragazze.

 

Avvicinandosi all’età in cui si andava a scuola, Maria si accorse, per la prima volta, che c’era una differenza tra figli maschi e figlie femmine; i ragazzi potevano andare a scuola, le ragazze no - dovendo, come sempre, aiutare la madre, il padre, i vicini. Il lavoro duro negli orti, le vigne e gli uliveti formavano i loro piccoli corpi di ragazza – facendo sviluppare muscoli duri e mani grandi, e infine, per farsi valere, una voce bassa e forte, piena di parolacce, di ordini e di offese che potevano, se necessario, diventare delle tirate vere e proprie. Non c’era né tempo né spazio per i sentimenti. 

 

Maria non aveva potuto imparare a leggere, né a scrivere. Però, nello stesso tempo, aveva imparato molto sulla vita e per la vita.

 

Già molto presto, quando aveva appena sei anni, un vicino abusava di lei. I genitori la prestavano ai vicini; e la sera, quando erano seduti per la merenda, tutti insieme, dopo una dura giornata di lavoro, il vicino era solito allungare la mano, sotto il tavolo. All’inizio tutto ciò le sembrava strano e assurdo; guardando il vicino in faccia si meravigliava dei suoi occhi vitrei e della clandestinità. E, ben per quello, diventava prudente: grazie a Dio possedeva abbastanza orgoglio e intelligenza per valutare tutto questo in modo giusto. Decise che, la prossima volta che fosse successo, si sarebbe difesa portando alla luce del giorno il fatto clandestino, magari solo facendo sollevare tavolo e sedie. Già allora aveva bene impresso nella memoria che la verità rappresentava una protezione; e cosí si sarebbe difesa – per tutta la vita che aveva davanti – da ambiguità di ogni genere.

 

I ragazzi andavano a scuola, e lei, nel frattempo, continuava a lavorare e a imparare come si costruiscono i muri a secco. Appena i fratelli tornavano, nel pomeriggio, studiava i loro libri di scuola e si faceva spiegare tutto quello che ci vedeva. I bambini erano seduti, tutti insieme, nello stesso angolo nel quale, adesso, sta la televisione.

 

 

Affilatura

 

La sua prima mestruazione segnalò il momento in cui doveva partire per impegnarsi nel suo primo lavoro fuori casa. Dato che si era mostrata docile negli affari domestici, fu offerta al miglior ristorante del paese vicino, in riva al mare.

 

Incominciò come cameriera; i padroni raffinarono la sua educazione e misero in ordine il suo aspetto. Grazie a ciò che già era e a quanto aveva imparato di nuovo, si trasformò in una bella giovane donna piena di furbizia e di ingegno, sicura di sé e coraggiosa. Gli uomini giovani e maturi le ronzavano intorno come zanzare intorno alla luce. Più di uno entrava solo per lei e non per la buona cucina, qualcuno ogni sera, altri giungevano addirittura dalla città lontana.

 

Rimase incrollabile, col tempo raggiunse una certa maestria nel respingere e sviluppó una maniera fine, quasi impercettbile, di rifiuto, imbottito di complimenti e sguardi che ne aumentavano la potenza. E che occhi aveva! Blu acciaio, scintillanti, con piccoli puntini scuri; dei fuochi d’artificio. 

 

Un giorno, la cuoca si ammaló, e chiamarono Maria in cucina come tappabuchi. Faceva da mangiare con grandezza, adoperando le ‘ricette della nonna’ osservate presso la madre che, in realtà, erano il tesoro di molte generazioni (con verdure e odori dell’orto e carne di animali che, durante tutta la loro vita, avevano pascolato mangiando le stesse verdure e annusando gli stessi odori) in combinazione con ricette che i naviganti avevano, durante i tempi, riportato da paesi lontani. 

 

Cosí l’oste si trovò davanti alla difficoltà di licenziare la cuoca guarita e di assumere un’altra cameriera, la quale, peró, non riuscì mai a diventare il centro d’attrazione che era stata Maria. 

 

Proprio quando Maria si era stabilita in cucina e aveva difeso il suo posto al focolare, arrivò, in quelle parti pacifiche, la guerra. Le truppe “amiche” tedesche si installarono e terrorizzavano la popolazione. All’inizio gli attacchi succedevano solo quando gli stranieri erano ubriachi o erano stati respinti da una delle ragazze, o ambedue le cose; ma da quando i tedeschi avevano esteso la loro grande guerra su tutti i fronti e la stavano perdendo dappertutto, si incattivirono e attaccarono paese e campagna con l’aiuto di aerei che volavano a bassa quota. Non c’era, in quella regione, nessun impianto militare e neppure industriale; gli attacchi erano pura angheria. Avendo troppa paura per stare a casa, i contadini si rifugiavano in una delle molte cave sotto i campi di vino, dove si nascondevano, di giorno e di notte. 

 

 

Gita

 

Poco dopo la fine della guerra, un giovane uomo in uniforme della guardia di finanza, si presentò nel ristorante e rimase come colpito da un fulmine, quando vide Maria che guardava fuori della cucina. Era stato, com’era solito allora - e anche oggigiorno – collocato lontano da casa, dal Veneto, per prestare servizio vicino al mare. Si era così emancipato da sua madre.

 

Maria, la gagliarda, nel giro di un secondo lasciò un’impronta indelebile nell’anima del giovane sensibile e sommesso. Ma, per ottenere la minima prospettiva, ci volevano ancora molte visite nel ristorante e molte cene da pagare. Finalmente il giovane vinse per la sua qualità di incassatore e il suo accanimento, cose che Maria, dopo lungo esame, decise di preferire a certi sguardi profondi, certe guance rosse e certe belle parole.

 

Un pomeriggio di domenica Maria aveva un appuntamento con lui per fare una passeggiata lungo il mare, nel paese accanto.

 

Guardando indietro, era questo il momento, quando „la sua vita le scivoló dalla mano“, quando la marea dei sentimenti la prese e la portó in alto mare; non sapeva nuotare. Davanti a lei che aveva imparato di non fidarsi di nessuno al di fuori di se stessa, avendo ricavato cosí la forza di liberarsi dalle condizioni ingiuste, si prospèetttava una meta nuova, la devozione, alla quale però non sarebbe mai arrivata in tutta la sua vita. 

 

Per cominciare si sposarono, lei partorì i bambini, costruirono la casa. Suo marito appena sposato cessó il servizio presso lo stato e aprì una piccola impresa di costruzioni. Lei collaborava come un uomo, anche quando era incinta e poco prima di partorire e quando aveva i bambini piccoli.

 

L’infanzia che aveva conosciuto, la regalava anche ai suoi figli, uno a uno. Essendo orgogliosa di quello che aveva raggiunto, non muoveva nessun rimprovero ai suoi genitori. Guardava in avanti.

 

Suo marito decise di andare a lavorare all’estero, lei lo accompagnò, assieme ai figli. Lingua straniera, altre abitudini, – possiamo immaginarci le difficoltà per lei che era analfabeta. Lei riuscì anche in questo.

 

Ritornati a casa cominciarono a costruire un edificio superbo per la famiglia, con il lavoro delle stesse mani di lei e lui. Lei sgobbava, organizzava casa e famiglia, la scuola per i figli, la vendemmia e la raccolta delle olive. 

 

 

Le stellette da generale

 

Le stellette che si era guadagnata nella direzione della famiglia, si depositavano nel suo carattere. Sentire la responsabilità e assumersela non era niente di nuovo, per lei; peró, con ciò, voleva anche avere il da dire. 

 

Fino a quando suo marito poteva evadere per andare al lavoro e i figli per andare a scuola, tutto andò bene.

 

Ma arrivó il giorno, nel quale suo marito cadde dal caco e si rupe il braccio e il bacino, ragione per cui, per parecchio tempo, non potè più uscire a lavorare e dovette star seduto a casa. Figli e figlia erano, da molto tempo, grandi e avevano le loro famiglie.

 

Cosí, i due vecchi dipendevano uno dall’altro e lui finí nel podere di lei. Forse il vecchio aveva solo bisogno di consolazione e sostegno, può darsi che lui fosse semplicemente rognoso e soffrente: Una parola tirava l’altra, e lui scappava come un fulmine, stava prima dalla figlia, poi dalla sorella e affittò, alla fine, una piccola stanzetta nel vicino paese. Qui lei lo rintracciò e lo persuase a tornare a casa. Funzionò solo per poco tempo, e già lui aveva di nuovo voglia di nascondersi. Le discussioni ad alta voce, che col tempo diventarono dei monologhi di Maria, le regalarono, presso i vicini in parte anche lontani, il sopranome di “il generale”.

 

Poi Maria si ammaló; un’emorragia uterina la portò all’anemia e all’orlo della morte. Aveva sempre pensato che la cosa si sarebbe risolta da sola.

 

Lui tornò per misericordia a casa, per curarla.

 

Lei non lo lasció più in pace, né di giorno né di notte; gli ultimi anni l’avevano riempita di rimproveri fino all’orlo, la botte stava per traboccare. Pensando alle ingiustizie che avevano segnato la sua vita fin dall’inizio e l’avevano sempre indotta a combattere, sentiva montare la sua rabbia. Non incolpó né i genitori né le circostanze, vedeva solo lui come capro espiatorio. Di notte non permetteva più che dormisse e gli rimproverava, ad alta voce, di aver completamente deluso tutte le sue aspettative e di averla tradita. Lui, se non voleva soccombere, doveva di nuovo fuggire.

 

Maria rimase da sola; gli unici esseri che la guardavano ancora negli occhi, erano un paio di gatti semiselvatici e i conigli nella stalla.

 

Menava la vita di un eremita. Strepitava di notte in modo che echeggiava in tutta la valle, di giorno lavorava fino a estenuarsi per sublimare la sua rabbia. Le persone intorno, ammirandola e temendola, cercavano di evitarla: evitavano il generale Maria, generale adirato senza truppe.

 

 

Epílogo:

 

Non si sentono più ordini, intorno alla casa del generale: Maria è amalata, inguaribile, e stá morendo. Nel orto ben curato si spande la tristezza come una brina.

 

Il marito è tornato a casa; adesso è lui quello che mette la chiave nella serratura e apre la porta. I suoi occhi blu da biricchino scintillano, quando dice: "Lei voleva sempre dominare." Cosí lei aveva, durante tutta la loro vita, avuto la chiave in mano, lei sola.

 

Il marito, la figlia e i figli si danno il cambio accanto al letto di Maria, che diventa sempre meno, sempre più tranquilla. La morfina clemente le togle i dolori. Il generale si è ramollito e ha lasciato il campo di combattimento. La vita si stá ritirando dolcemente.

 

27 dicembre 2011: La lotta, durata 7 mesi, è finita. Maria muore. La notizia si propaga da valle in valle: Il Generale è morto.

 

Lucio e le lucciole (2008)


Lucio, da giovane, era musculoso e pieno di fantasia. Lavorava forte come un bue, coll’aiuto di carne e ossa, e si divertiva fortemente come un toro, mettendo in vigore il suo sesso e le sue corna. Si sentiva uomo completo, mettendo nel lavoro e nel divertimento tutta la sua anima.

 

Il lavoro lo trateneva tutti i giorni della settimana e ci dava il godimento della sua forza fisica e di una stanchezza meritata, dolce e pesante, la sera, dopo i compiti compiuti.

 

La domenica, chiamata da lui “giorno del signore”, si dedicava all’ozio e al divertimento, uscendo con gli amici a ricerca di donne.

 

Allora, in paese, non c’erano discoteche e robe del genere. C’era il bar, per un caffé veloce, e la casa del popolo per giocare a carte. Bastava trovare un amico che avesse la macchina, e si partiva, via col vento e fuori dal raggio di osservazione paterna e paesana.

 

La discoteca, per cosí dire, si trovava in mezzo alla montagna vicina e mandava i suoi suoni verso il cielo, risparmiando gli abissi verso mare e terra. Radunava tutta la bella gioventù in giro che affluiva con la voglia di bagnarsi in suoni e luci psichedelici che non avessero niente da vedere con la vita dura di ogni giorno.

 

Una sera era annunciato un nuovo gruppo: “Le Lucciole”; ma non si puó dire che i ragazzotti si fossero trovati lí per loro, sembrava un fatto marginale.

 

Quando in sala spegnevano le lampade e sulla scena, nella luce abbagliante dei fari artistici di teatro, apparivano le quattro ragazze della banda con i loro strumenti lucenti e le loro gonelle corti e dondolanti, a tutti loro, duri e spirituosi, ci mancava il fiatto.

 

Lucio forse era quello più preso. Dimenticava, al momento, tutti i suoi modi di fare da fusto e spirituoso, da quello che non si fà dire una cosa due volte, che risponde subito e nel modo adatto, se non giusto. 

 

Quella che più ci piaceva era Mara, la sassofonista. Il suo modo di esibirsi tramite un fiatto immenso che faceva vibrare lo strumento che espulsava una colonna di aria e musica eretta come un pene con i suoni arrabbiati e dolci nello stesso momento, a Lucio comunicava senza clausole la capacità di questa ragazza di esprimere tutta la gamma dei sentimenti umani, dall’amore alla tristezza della morte, non risparmiando l’ira e la rabbia. Lucio si sogno di tenerla tra le sue braccia e di farla tremare e scogliersi come la cera sotto i suoi baci. E non solo questo; si imaginava addiritura che lei potesse trasmettergli la sua profondità di sentimenti la quale ci ricordava la forza della natura.

 

Lucio si metteva in prima fila, approfitando dell’orlo della luce che, cosí sperava, lo metteva in evidenza, aiutandoci di buttare occhiate piene di fuoco e frenesia.

 

Nella pausa faceva portare un bicchiere di Coca Cola alla ragazza, con complimenti della sua parte. Mara rispose con un veloce movimento del mento. Cielo!

 

Arrivati alla fine del concerto, non la lasció più da sola, non voleva che scapasse dai suoi sogni e dalla sorte, prevista da Lucio con tutto il furore della sua anima. In concorrenza con gli altri ragazzi che facevano i galli, gonfiandosi il petto e usando parole forti, Lucio si esibiva più forte di tutti. Non si fermava alla metà del possibile, non si accontentava del Lucio di ogni giorno, faceva una parte straordinaria, straordinariamente storta.

 

Quando tornó dal bagno, Mara era scappata.

 

Lucio deluso si appoggió al banco, chiedendo una grappa per rifarsi. Mentre guardava nel liquido chiaro e oleoso, sentí una voce dirigersi verso lui: la voce di Natalina, la percussionista. Durante il concerto non si era nemmeno accorto di lei; in ogni caso non avevo notato il contributo di Natalina come un disturbo dell’armonia provata dalle sue orecchie. Quello che gli disturbó era la sua voce: tagliente e alta. Pazienza! E poi la sua faccia: tipica contadina; e la figura: tipo zucca. Non ci piaceva per nulla.

 

Ma con la scusa di voler frugare un po’ per magari trovare un tesoro nascosto e per rifarsi dalla sua delusione ci stava alle sue proposte e si faceva trascinare nei cespugli dietro la discoteca per lasciarsi alle gioie dell’amore, corte e con un gusto amaro dopo.

 

Natalina chiedeva il suo numero di cellulare; Lucio inventó uno falso e se ne andó.

 

Nel mese che seguiva non si poteva liberare dei sogni di Mara; di giorno si infiltravano nella sua mente e gli impedivano di ragionare come al solito, di note si espandevano come una macchia di olio sull’acqua e coprivano tutto.

 

Quattro settimane dopo il primo concerto, nella discoteca si anunciava la prossima apparizione delle “Lucciole”, questa volta in nuova combinazione.

 

Lucio, ansioso che Mara avesse lasciato la banda, si precipitó sul luogo dopo essersi preparato a lungo, facendo la barba per la seconda volta, quel giorno, e profumandosi di ‘Poison uomo’. Meno male: Mara usciva come prima, il sassofono tra le braccia, seguita da Ira e Maria Candida e, come ultima: Federica che prese posto dietro i tamburi. Dal cuore di Lucio tombó un sasso grosso come un camion!

 

Per la pausa ordinó due bicchieri di vino: uno per lui e uno per Mara, che forse – cosí pensó - non aveva apprezzato la Coca Cola dell’altra volta. La pausa arrivó e Mara era scomparsa; nel suo posto si sedette Federica, la percussionista. Ma: è mai possible….? Le percussioniste sceglevano sempre lui, proprio le percussioniste con le mani da coperchio di cesso e le braccia musculosi come un operaio.

 

Lucio, questa volta, seppe evitare il pessimo: l’amore dietro il cespuglio; vuotó il suo bicchiere e scapó durante l’ultimo pezzo (“bella ciao”), sacrificando la possibilità di avvicinarsi a Mara e aprire il barattolo di Pandora che, dentro di lui, si gonfiava e diminuiva come il mare in furia.

 

Nei primi giorni sequenti deploró il suo destino, sentendosi percusso dalla sorte. Poi vincevano il sogni diurni e notturni, sogni di Mara con il suo pene vibrante di puro suono.

 

Per Ferragosto, nella discoteca avevano progettato una “notte sotto le stelle” con musica all’aperto. Dovevano apparire tre gruppi: “Le Lucciole”, “Hank five” e “DJ Brutta speranza”. Per dire la verità, i due ultimi non appartenevano ai preferiti di Lucio; “Hank five” suonava un jazz storto che offendeva il suo orecchio e “DJ Brutta speranza” era veramente brutto e ci sembrava un handicappato della mente con le sue musiche uniformi e stolte ai bassi pungenti.

 

Solo per “Le Lucciole” decise di mettersi in camino, sperando di vivere la loro illuminazione lampeggiante, tardiva in una notte d’agosto.Uscivano dal retroscena, nella combinazione già conosciuta, Mara come ultima, accompagnata da applausi frenetici.

 

Lucio sapeva di aver offeso Federica, l’altra volta, essendo scappato nel più bello. E sperava che lei, questo volta, avesse capito e lo lasciasse tranquillo. In più sperava di potersi avvicinare finalmente a Mara, la sua stella cometa della notte di S. Lorenzo. Per chiederla cosa volesse bere nella pausa, entró nel retroscena e la vide in braccio di un’altro uomo, molto meno bello di lui stesso, un’essere piccolo e ganciuto, senza mollica e con un grande naso corvo. Appena riuscí a sradicare l’idea dalla mente, che nasi del genere sono un segno di potenza virile straordinaria. Chi sà?

 

Per forza si accontentó della compagnia di Ira, la guitarrista del gruppo. Quando fece i primi passi verso la sua metamorfosi in amante fulminante, Ira esplose in ira e rabbia e ci disse, cosa pensano gli uomini, se pensano davvero, se sono capaci di pensare ? Che a lei sembrano esclusivamente diretti dalla loro coda, che ne può benissimamente fare a meno e che ha le balle piene di essere presa per il culo. Punto. Un fuoco d’artificio sotto le stelle. 

 

Lucio si risparmió ulteriori dramme e anche la rappresentazione degli altri gruppi e si ritiró a casa per poter sognare, con calma e sotto le stelle della stessa notte, della Mara dei suoi sogni, priva di ogni altro amante fuori lui stesso.

 

Dopo questo festival estivo, i proprietari della discoteca decisero di far giocare altri gruppi più giovani per attirare altri giovani e non sempre questi contadini mezzo invecchiati che non consumono e si bevono il loro vino dopo essere rientrati a casa.

 

Solamente dopo richiesta forzata da parte dei vecchi scapoli impegnavano “Le Lucciole” un’ulteriore e ultima volta, per la sera di fine anno. S. Silvestro mi aiuti!

 

Lucio, questa volte, accanto alla estrema cura della sua apparizione esterna, già nei giorni di Natale aveva cominciato a deliberare e di sviluppare un progetto come sedurre Mara con arte e studio.

 

Sapeva già che non era possible fare bella figura con le bevande e imaginava anche che non fosse stato l’unico corteggiatore; coll’andare degli anni aveva la faccia piena di rughe fine e i capelli grigiastri sulle tempie - lo sguardo, però, era rimasto intenso e focuoso. Cosí sperava di compilare il ruolo dell’ammirante pieno di esperienza con sgarbo giovanile, insomma: l’uomo di carattere da fidarsi.

 

Dopo alcune ore di preparazione davanti allo specchio, si presentò nella discoteca, quando le ragazze già suonavano, Mara in prima fila, Maria Candida come cantante. Era uno spettacolo pieno di romaticismo e nostalgia, tutti i vecchi fedeli non potevano fare a meno di ricordarsi delle belle serate passate con la musica delle “Lucciole” e dei sogni che avevano piantato nel cuore di uno e di altri. Per dirla bene: Anche le ragazze erano maturate, ma con l’indulgenza dei tardi anni riuscivano a vederle come erano state tutti questi anni fà. 

 

Lucio inizió il suo insediamento durante la pausa, quasi come sempre. Si postó accanto a Mara, al banco, e cominciò a dire: “Dopo tanti anni continuate a sedurci con la vostra musica. Vorrei ripagare con la mia vita.” 

 

Mara e Maria Candida che le era accanto dall’altra parte, guardavano stupite, non sapendo se piangere o ridere di tanto romanticismo. Mara, per prima volta, misuró Lucio con uno sguardo profondo come se lo vedesse per la prima volta, componendo nella mente una risposta adatta e allo stesso livello. Si sentiva attirata e ripugnata ugualmente, e cosí attendeva un’attimo tropo a lungo, perdendo per sempre la fortuna del momento dell’attaco.

 

Maria Candida era più veloce, più svelta. “Dipende se me la offri bella e ti seguo subito, lasciando dietro a me scena e canto.”

 

Lucio era in grado di apprezzare tale sacrificio. Guardava in faccia a Mara: pareva congelata e questa faccia congelata e adorata si stava scogliendo assumando l’aspetto di quella che ha perso la battuta e ha perso la battaglia. Piena di righe e di delusione. Un’espressione come per dire: ‘mi sono rassegnata, per l’amor del cielo’. 

 

Maria Candida, invece, avevo il fiatto della caccia, della caccia alla fortuna, finalmente. 

 

Lucio e Maria Candida si sposero poco dopo. Al sesto mese del loro matrimonio nasceva il loro figlio: Fiore. Lucio, avendo promesso una bella vita, non poteva mantenere la promessa. Nel molino della vita di ogni giorno, la vita perdeva di morso; nascevano liti e malintese che amazzavano pian piano il loro sogno comune. Lucio che era stato persuaso di aver fatto la scelta giusta, anche se non era stata la prima scelta, cominciava a dubitare e usciva fuori del senso dell’equilibrio che era necessario per il duro lavoro nei campi a ripetto.

 

Un bel giorno cadde da un campo a quello di tre piano sotto e si ruppe tutte le ossa.

 

Maria Candida, sola in casa con poco più di un focolare dove preparare da mangiare, e naturalmente con il figlio che man mano diventava grande e partiva per conto suo, cominció a sognare di ritornare in scena e, un bel giorno, scappò e non era mai più vista da queste parti.

 

Lucio nelle belle notti d’estate, specialmente quando c’era luna piena, so trascinó sul terrazzo per coccolare la sua solitudine, l’unica amica che gli era rimasta. E, per un breve periodo, di giugno, osservava le mille luccertole che lampeggiavano alla ricerca di una compagna per condividere il loro desiderio di essere immortali e di poter portare avanti l’idea della vita che era più grande di loro.

Impressum

Texte: Copyright presso l'autoreIllustrazioni: da "Il giardino delle delizie" di Geronimo BoscoFoto: Dr.Ulrike Lupi-Fuß
Tag der Veröffentlichung: 09.03.2011

Alle Rechte vorbehalten

Widmung:
Alla gente delle 5Terre con la voglia di festeggiare la memoria collettiva - da parte di una che li ha conosciuti, questi personaggi, e li ama. Ringrazio ai miei amici Diana e Lorenzo per aver corretto il mio testo.

Nächste Seite
Seite 1 /