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Ringrazio

 

 

i miei amici Diana "a saggiuna" e Lorenzo "suffi ricci coe duce" per aver corretto il mio italiano a volte atroce.

Certi nomi di persone ancora in vita sono stati cambiati.

 





 

 

 

 

 

 

 

 




I ballerini del campo di concentramento

 

Ho scorto le 5 Terre, per la prima volta, attraverso il finestrino di un’automobile.

Ci eravamo messi in viaggio assieme alla sorella di Paolo, direttrice di scuola a Ferrara, nubile per convinzione e così emancipata come si può essere solo in Italia – e questo vuol dire, in confronto alla situazione in Germania, molto emancipata – alla ricerca di una casa per passarci le vacanze.

Avevamo appena passato la punta di Montenero, quando, di colpo, i cinque paesi si presentarono al nostro sguardo; erano appesi ad una costa a picco sopra il mare, quasi a togliere il fiato. Se alzavi gli occhi, sopra le case dei paesi si susseguivano le terrazze dei vigneti – e allora, all’inizio degli anni 70 ce n’erano ancora tanti – mentre, come contrappunto, orizzontalmente si estendeva lo specchio blu del mare.

In quel momento ebbi una certezza: lì dovevo mettere radici.

Per i gusti della sorella di Paolo le 5 Terre erano troppo estreme, troppo ripide, troppo rigide. Subito decise di passare le sue ferie altrove.

Io, al contrario, prenotai a Riomaggiore un appartamento per i mesi estivi; una stanza per me ed una per i miei amici Peter e Tatjana, che mi avevano sempre parlato delle 5 Terre senza averle mai viste.

Alla sera telefonai. Furono subito d’accordo con entusiasmo. Peter aveva inoltre invitato per me un amico di Vienna: Siegfried, biondo e con occhi blu. Ma il progetto era destinato a fallire.

I primi giorni di ferie li dedicammo a definire i limiti e a metterci d’accordo su tutto. Dopo vani atti di seduzione e tentativi di allungare le mani nel comune letto matrimoniale, Siegfried si accontentò, la notte, di togliersi le lenti a contatto, senza le quali era cieco come un riccio neonato, e di coricarsi prima di me. Così tentava di addormentarsi profondamente prima che io apparissi, e io, spesso, osavo entrare nella nostra camera solo quando lo sentivo ronfare. Solo in quella circostanza quel rumore mi sembrò simpatico. 

Quando si ristabilì la pace, leggemmo che due paesi più in là, a Corniglia, si stava festeggiando la ‘festa dell’Unità’. Queste feste venivano organizzate dal partito comunista italiano ed erano molto popolari. Specialmente nei piccoli paesi si servivano le cose buone del luogo: ravioli fatti in casa dalle donne e vino di cantina, il famoso bianco salmastro.

Le uve bianche di quei vigneti, nei campi ripidi appesi sopra il mare, venivano sfiorate dal sale delle maree. Questo, sciogliendosi nell’aria, dava al vino un bel colore ambrato con il gusto di mare. 

Prendemmo il treno per andare a Corniglia. Il treno passava spesso, solo una o due gallerie tra un paese e l’altro, chiaro, scuro, chiaro. Fu il modo di viaggiare più corto e, almeno relativamente alla nostra sete di vino, anche il più ragionevole.

Attraverso la scalinata di Lardarina, ripida come un passo di montagna, arrivammo nel paese. Passammo per il carugio principiale, ombroso e fresco, per raggiungere la piazza della festa, il bel vedere, sotto la torre dei Saraceni.

Le pentole fumavano; sul banco delle bibite il vino, nettare degli dei, riempiva i bicchieri di plastica.

La banda suonava canzoni della resistenza, ritmicamente modernizzate per indurre gli ascoltatori a cantare e ballare. ‘Bandiera bianca la vogliamo no…..

’L’anno precedente c’era stato uno scandalo: una giovane ragazza milanese aveva ballato così freneticamente, roteando alla maniera dei dervisci, che l’orlo della sua gonna si era alzata in’aria come un piatto e aveva svelato che, sotto la gonna, essa non portava niente. All’istante la festa si era fermata e il pubblico, in parte indignato, in parte rincresciuto, aveva lasciato il posto del crimine. ‘Bella ciao.’

Noi due donne che non ce la facevamo a stare sempre sedute - gli uomini preferivano appoggiare tranquillamente il bicchiere alle labbra - andammo da sole in pista, circondate dai festeggianti che si godevano il pasto e il vino.

All’inizio ballavamo felici con occhi brillanti e fianchi rotanti. Ma non durò a lungo. Si presentarono due fusti per invitarci a danzare un lento. ‘Salutami i monti.’

Ed era proprio quello che fece il mio ballerino che si mise immediatamente ad accarezzare languidamente le mie tette. Quando volli ribellarmi, cominciò a sussurrare “Sei tedesca?” “Si.” “Mio zio è stato deportato in Germania durante la guerra … ad Auschwitz ….è morto!”

Essendo nata nel dopo guerra, immediatamente mi irrigidii e la mia difesa si frantumò. Ero dell’avviso di dover essere punita per la colpa che aveva accumulato il mio popolo. Il mio ballerino frugava con astuzia in tutti i campi del godimento.

Per dire la verità, anche un ballo mi sarebbe bastato, ma per risarcire i danni di guerra mi concessi per la lunghezza di quattro lenti, prima di osare dire grazie e ritornare al mio posto accanto a Siegfried. 

Poco dopo ritornò anche Tatjana, con le guance rosse. Era molto impressionata. “Figuratevi, ho ballato con un giovane che ha avuto il padre ammazzato dai nazisti a Dachau.”Subito pensai “Due da un paese così piccolo?”

Si, due furbe volpi !

Allergia allo iodio

Nella storia delle 5 Terre ci furono, ripetutamente, movimenti dall’alto verso il basso e viceversa: I paesi, all’inizio erano nati in quota. Là, i contadini laboriosi costruirono, sui pendenti sassosi, campi di vite ed uliveti. Per riuscirci, avevano dovuto sviluppare la tecnica dei muretti a secco: sassi, posti l’uno accanto all’altro, e poi uno sopra l’altro senza cementante per drenare e tenere la terra, che era stata portata su a spalle e in testa da lontano su quelle colline fatte di sassi.

I nemici di questi contadini sono da una parte le piogge forti – non rare così vicino al mare – che facendo scorrere le acque con velocità spaventosa dilavano il terriccio pregiato e abbattono i muri a secco; dall’altra i rovi e i pini che prendono, come invasori, possesso dei campi.

La lotta contro questi tre distruttori continua da molti secoli.

Coll’andar del tempo, alcuni abitanti della montagna si fecero pescatori e si installarono sulla costa del mare.

Le donne continuarono a lavorare i campi di vite e gli uliveti. Gli attrezzi necessari e il mangiare e il bere - tutto era trasportato in una cesta sulla testa. Per appoggiarla bene, le donne solevano fare un cuscinetto da mettere sopra la testa con il grembiule, così da poter camminare con la cesta in modo sicuro ed elastico attraverso i labirintici sentieri rompicollo, lungo i muretti stretti e per le scale ripide di pietra integrate nei muri.

Seguirono più di cinquecento anni di terrore saraceno. Questi pirati, che reclutavano gli uomini provenienti da paesi diversi attorno al mare mediterraneo, non davano solo da temere alle due grandi potenze marinare, Genova e Venezia, ma anche agli abitanti dei piccoli borghi lungo la costa, provocando così un’ulteriore migrazione verso l’alto.

In quest’ultimo secolo gli uomini presero a viaggiare per mare mentre le donne tiravano su i figli e lavoravano i campi. Donne piene di orgoglio.

Io ho fatto in tempo a conoscere questa miscela di mente aperta verso il mondo e chiusa a proteggere il nido familiare.

Tutto quel su e giù ha generato una diffidenza tra quelli di sopra (“i montagnai”) e quelli di sotto, diffidenza che a volte si trasformava in vera inimicizia e disprezzo.

Oggi c‘è un ulteriore cambiamento: gli abitanti dei paesi di mare si sono gettati sul mercato del turismo, e questa nuova apertura verso il mondo minaccia e scalza la loro cultura.

Già adesso si vede che i vecchi nemici acqua, rovi e pini hanno ricominciato la loro corsa vittoriosa, perché tra i giovani pochi sono ritornati a lavorare i campi e gli uliveti. A dire la verità nessuno può campare con la coltivazione della vite e dell’ulivo. Così la tecnica arcaica della costruzione dei muretti a secco cade nell’oblio pur essendo essenziale per poter tutelare e conservare questo paesaggio culturale.

Proprio in questo momento, le 5 Terre sono state nominate dall’Unesco patrimonio culturale dell’umanità; c’è da sperare che, accanto ai soldi pompati da questa istituzione diventi possibile sviluppare anche idee e modi su come poter conservare, nel 21° secolo, in controtendenza all’ industrializzazione e alla globalizzazione, da un lato, e alla generale americanizzazione dall’altro, un paesaggio culturale per la costruzione del quale tante generazioni hanno lavorato con fatica e con sudore.

Mi auguro solo che questo antico paesaggio non si trasformi in uno zoo Merry old Europe o in un’immensa birreria.

Mio marito e io abitavamo, quando venivamo in Italia, presso i suoceri su in collina e desideravamo molto comperare un appartamento giù al mare, a Corniglia. Un’impresa difficile e lunga dato che, dal dopoguerra, non si può più costruire una casa nuova – una decisione molto saggia contro la speculazione.

Si deve, perciò, avere la fortuna di venire a sapere – non dal mercato immobiliare, ma in modo segreto e attraverso i molti angoli e spigoli della parentela (un lavoro di vero e proprio spionaggio) che un appartamento è in vendita. Dopo molti anni ci capitò questa fortuna.

Avevamo sentito che un sarto cieco e sordomuto di La Spezia, soffrendo di un’allergia allo iodio e non potendo quindi stare vicino al mare, aveva decenni prima ereditato un piccolo appartamento che non aveva mai potuto usare. Venimmo anche a sapere che sarebbe arrivato a Corniglia la domenica successiva, con il treno.

Accompagnati da nostro cognato, che appartiene a una vecchia famiglia cornigliese, lo aspettammo alla stazione. Completamente sconosciuti a lui, gesticolando e aiutandoci con le mani e persino con i piedi, arrivammo con lui fino alla macchina e, da lì, fino alla casa del cognato.

Come potevamo spiegargli – senza parole, solo con gesti tattili – che eravamo interessati a comprare l’appartamento di via Fieschi? All’inizio ci sembrava un’impresa impossibile da realizzare, ma un bicchiere dopo l’altro ci aiutò a capirci. Così, faticosamente arrivammo alla trattativa.

Lui ci spiegò che c’era un’altra persona interessata e per renderci chiaro il concetto formava con le mani due tette belle e tonde davanti al suo petto piatto. Poi, per essere ancora più chiaro, descrisse con una lieve rotazione nell’articolazione delle mani, un grande arco accanto ai fianchi. Ovviamente un bel culo. Avendo in questo modo conosciuto la nostra concorrente eravamo in grado di immaginarla con gran gusto.

Per l’ulteriore trattativa, quella sul prezzo, dovemmo servirci delle dita, erettilmente alzate e da lui tastate (il ‘principio maschile?).Ci accordammo ed entrammo nella nostra nuova casa di Corniglia.

Questa divenne per noi: una nuova patria, un progetto divertente (la nostra bellissima dimora si riempì di trovate del mercato delle pulci), una penthouse per amici e nemici e, per finire, un oggetto di valore cui, al momento del divorzio, nessuno dei due poteva rinunciare. Questa bellissima casa che, nei nostri calcoli, doveva rappresentare un’assicurazione per la vecchiaia e un’integrazione della pensione, non fu niente di tutto questo.

Barbó

In quel periodo stavamo arredando l’appartamento, che si trovava nel quarto piano di una casa stretta, situata nel carugio principale di Corniglia: via Fieschi. Una scala ampia e ripida, la ‘scala santa’ portava dal carugio alla porta dell’entrata. Sopra avevamo un grande terrazzo che era quasi la metà della superficie dell‘appartamento. Da lì si aveva una bellissima vista sulle case intorno (e anche dentro le case, un fatto che, da un lato, stimolava il mio voyeurismo e, dall’altro, l’esibizionismo dei vicini), e anche si poteva scorgere un piccolo triangolo di mare, lontano. 

Seduti sul balcone sentivamo il rumore del mondo e della gente che faceva la spesa o che prendeva un aperitivo al bar oppure che scherzava nel carugio, prendendosi per il culo, diventava un leggero sussurro.

Dall’alto si poteva godere della vita del paese, essendo al di sopra di tutto.

Accanto, alla stessa altezza del nostro terrazzo, si trovava il balcone di Barbara, detta Barbó, la nostra vicina che, sul suo balcone però, faceva solo cose utili: stendere la biancheria, togliere la biancheria, chiacchierare con me, invitarmi a cena. Lassù si poteva pettegolare e scambiarsi le opinioni su tutto quello che giù in strada non si poteva dire. Quando ero lassù, il nemico più severo di mio cognato, suo fratello, mi salutava, mentre se lo incontravo nel carugio passava oltre con la faccia cattiva.

Giovanni, il marito di Barbó, amava che cenassi assieme a loro. Poiché ero spesso da sola a Corniglia per prepararmi ai miei esami, trovava spesso l’occasione di invitarmi. Quando, alla fine della cena, i due figli finalmente scomparivano per buttarsi nella vita notturna del paese, noi tre potevamo, senza problemi, giocare ai ‘vecchietti’ e Barbó e Giovanni mi raccontavano della Corniglia dei vecchi tempi.

Mi potevo immaginare tutto vivacemente, come se avessi, davanti ai miei occhi, le copie color seppia delle lastre d’argento dei fratelli Lumière.

Ambedue, Barbó e Giovanni, avevano i capelli rossi ed apparivano belli come in una fiaba, nella mia immaginazione.

Una sera, a Ulm, ricevemmo una telefonata: Giovanni era morto di colpo di sera prima di cena, seduto nel carugio fresco. Partimmo subito.

Barbó e i due figli ricevevano la gente per le condoglianze. Sulla tavola, apparecchiata con diligenza, c’erano dolci, qualche bottiglia di vino e molti bicchieri. Il gruppo in lutto non si asteneva dal bere. Col bicchiere in mano, gli amici ascoltavano Barbó che, in lacrime, raccontava cosa aveva detto e fatto Giovanni prima di scendere nel carugio. Poi, regredendo nel tempo, raccontava di tutto quello che avevano vissuto e combattuto insieme e, alla fine, arrivava al momento nel quale si erano visti per la prima volta e si erano innamorati. Singhiozzi. Il flusso delle lacrime diminuiva ogni qual volta ripeteva il racconto; la consolazione stava entrando in lei.

Barbó, il giorno seguente, decise di non partecipare alla sepoltura – preferiva di mantenere il suo Giovanni dentro di sé nella memoria con i suoi passi che si affievolivano giù per la scala.

Molti anni più tardi trovarono un cancro nel seno di Barbó e le amputarono la tetta malata. Lei si consolava dicendo: “Tanto non c’è più Giovanni a giocarci.”

Stress di esame

Allora studiavo medicina e questo significava che dovevo sempre fare degli esami.

Per non incontrare in ogni momento nella mia città universitaria, in Germania, i miei compagni di corso che tendevano a logorarmi il sistema nervoso con le loro ansie, solevo fare la valigia e scendere a Corniglia, nel migliore dei casi da sola, perché li avevo abbastanza quiete.

Gli inviti regolari a cena in compagnia erano sicuri – Giovanni incaricava, ogni volta Barbó di chiedermi se avevo studiato bene ed abbastanza; solamente dopo la mia risposta affermativa seguiva l’invito.

Durante il giorno ero rinchiusa. Il mormorio del mondo nel carugio non mi disturbava in nessun modo. La mia disciplina bastava per sostenermi fino al tardo pomeriggio – anche se capitavano dei momenti dove mi sentivo sull’orlo della disperazione per la quantità di materiale da imparare, che mi induceva a combattere come uno che sta annegando.

Appena il sole tramontava sopra il piccolo triangolo di mare che potevo vedere dal nostro balcone, chiudevo i libri, scendevo giù per i gradini della ‘scala santa’ e, come una star della TV, entravo in scena nel carugio.

In fondo mi aspettava Lore, chiamato lo zio, il fedele amico, non anziano, ma con l’aspetto da anziano. Lore aveva lavorato durante tutta la giornata piegato sulle ginocchia nel campo e aveva voglia di fare due passi con la schiena dritta, ed io avevo frugato per delle ore nel campo della scienza del corpo umano per trovarci i bruchi, dai quali speravo che si sviluppassero bellissime farfalle. Una speranza che, per dire la verità, non si è avverata durante il mio lavoro come medico nel sistema sanitario tedesco alla vigilia del 21° secolo. Il vento era troppo rigido per le farfalle.

Lore ed io andavamo a spasso, orgogliosi e contenti. Attraversavamo il carugio, la piazza e arrivavamo in Santa Maria.

Santa Maria è una bellissima piazzetta sospesa in altezza sopra il mare. Un tempo davanti questa piazzetta si allungava un promontorio con la chiesa di S.Maria. Si racconta che un giorno il promontorio sia franato in mare durante la messa con i fedeli e il parroco. Chini sopra il parapetto facevamo in tempo a vedere il sole cadere nel mare, e l’impressione ci dava un forte senso di caducità e ci induceva a contemplazioni filosofiche, che oggi mi sembrano vere come allora.L‘ammirabile e fedele aiuto dei miei amici Barbó, Giovabbi e Lore fece in modo che io passassi con successo i miei esami, e ancora oggi non so cosa vuol dire stress da esame.Adesso sono vecchia e non sarei in grado di affrontare nessun esame. L’unico esame che mi aspetta è il morire, e quest’ultimo esame non rilascia diplomi. 

Al mare il Danubio blu

L’ultimo dell’anno è un giorno speciale, un giorno di passaggio a qualche cosa di nuovo, anche se a pensarci bene, è un giorno scelto in modo arbitrario.

Il giorno di S.Silvestro, l’ultimo dell’anno, è nelle 5 Terre – come dappertutto in Italia – il giorno della grande abbuffata, detta ‘cenone’.

Per l’occasione avevamo invitato alcuni amici dalla Germania e io avevo passato delle ore in cucina per comporre una cena che meritasse il nome di ‘cenone’. C’ero riuscita. Passammo seduti al tavolo ore mangiando, gustando sei piatti e bevendo vino e, con il dolce, lo sciacchetrà.

Alla fine sentimmo il bisogno di movimento. I nostri amici avevano immaginato una sorpresa. Scesero giù in paese e prepararono tutto clandestinamente, mentre io e mio marito pulivamo il tavolo e la cucina.

Poco prima di mezzanotte tutta Corniglia era in piedi e la gente si apprestava a baciare tutti quelli che avrebbe incontrato. Gli amici parcheggiarono la loro 2 CV al centro della piazza, aprirono le portiere, ci fissarono due torce e fecero partire il mangianastri con “Il Danubio blu”, che fu ripetuto mille volte. Dopo poco, la piazza era affollata di cornigliesi che si lanciarono nel valzer volteggiando sfrenati e sereni fino al primo mattino.

Il duomo brucia

Il duomo brucia

A questo bellissimo ultimo dell’anno doveva seguirne un altro, molto diverso.

Di nuovo S.Silvestro, di nuovo maratona in cucina. Questa volta avevamo progettato di fare dei testaroli, piccole focacce fatte di farina di castagno, cotte in antiche forme di terracotta (“testi”). Dopo aver acceso il grande forno, sentimmo arrivare gli ospiti sulla scala. Subito mettemmo – a strati – i testi sotto la volta del grande forno, che chiamavamo “la cupola del Duomo” . Il risultato fu nel vero senso della parola, fulminante.

Dopo la grande abbuffata, scendemmo a passeggiare nel carugio per prendere e dare i baci di augurio, quando, all‘altezza della nostra casa, sentimmo un forte odore di fumo. All’inizio si scherzava su quelli che prendono fuoco per la gioia dell’evento, poi lentamente nella nostra mente s’infiltrò l’idea che il fumo poteva partire dal nostro “duomo”, dove avevamo acceso un fuoco così magnifico; e così era.

Corremmo su per le scale. Arrivati in casa, la trovammo piena di fumo che partiva da sotto la base del forno. Vedemmo solo allora con gli occhi dolenti dal fumo, che le lastre di pietra pesanti della base del forno appoggiavano su dei tavoloni di legno, i quali avevano cominciato a bruciare lentamente. Ci volle un’eternità e un oceano di acqua prima di riuscire a domare il fuoco. In più c’era il pericolo che la costruzione crollasse. Se queste lastre pesanti fossero cadute giù, avrebbero senz’altro potuto sfondare il pavimento finendo direttamente nel letto di Xave - la cui camera si trovava direttamente sotto il nostro duomo e poteva da un momento all’altro trasformarsi in una tomba.

Xave a quell’ora, già dormiva un sonno profondo, appesantito dal vino. Non ci rimase altro che puntellare.

Ma, nonostante tutto, col sorgere del sole e alla fine dei lavori, riuscimmo a dormire come morti, con dei cuscini che avevamo innaffiato di profumo, e con la coscienza di avere sfiorato una catastrofe.

Il duomo bruciato fu poi demolito e trasportato, alla maniera ligure, pezzo per pezzo sulle spalle, giù a terra. La sua cupola impressionante è sopravvissuto solo nella nostra memoria.

Aria buona per l‘arte

Negli anni del 1970 nacque un tardo movimento hippie, che portò i figli dei fiori delle metropoli italiane nei paesi delle 5 Terre.  Arrivarono gruppetti di tutti i colori; donne con una testa da leone e gonne variopinte, uomini con la treccia e orecchini spesso accompagnati da un cane. Assieme a loro arrivò pure un gruppo proveniente da uno strato socialmente problematico: scalzi, sporchi, con i cappelli da rasta e con in tasca dei pantaloni l’obbligatorio cucchiaio per cuocere le sostanze. Sulla schiena portavano il sacco a pelo e il materasso isolante; al loro fianco avevano un cane malnutrito, scabbioso, pelle e ossa e coda tra le gambe. Si erano accampati sulla spiaggia del Guvano e arrivavano verso sera in paese per accattonare. Tra questi e i turisti ospiti c’era tolleranza e coesistenza pacifica.

Molto diverso fu per gli abitanti di Corniglia: alla fine dell’estate, la loro pazienza con questi esseri - che solevano pisciare nelle entrate delle case, per non parlare d’altro, oppure si coricavano negli androni per passare la notte, che rubavano nei negozi alimentari e che chiedevano l’elemosina, a volte con vigore, molestando i passanti - si esaurì.

La tensione esplose e questo successe quasi ogni anno. Gli uomini, accesi dalle voci acute delle donne, cacciavano con le minacce e, se era necessario, anche mostrando dei pugnali, i sottoproletari invasori, che scomparivano assieme a loro magri cani, con l’immancabile coda tra le gambe. 

Gli altri ospiti estivi erano invece tollerati e osservati. Per i giovani del paese rappresentavano uno svago arcibenvenuto dopo la lunga stagione invernale, buia e senza eventi memorabili, allora ancora senza televisione. Quel tipo di turisti, inoltre, si comportava anche molto diversamente da altri, essendo liberali, allegri e bene adattati alle situazioni che si venivano creando. Solevano leggere il giornale, la mattina sulla piazza, gli occhiali da lettura stretti sulla punta del naso. Le donne prendevano il bagno a tette nude, e questo, già allora, era concesso legalmente in Italia. Portavano una nuova epoca. 

Assieme a costoro, a quel tempo, c’erano molti artisti che soggiornavano a Corniglia.

Uno di loro, Michelangelo Pistoletto, aveva ereditato da suo padre una casa che aveva ristrutturato magnificamente. Lui, la sua famiglia e i suoi amici venivano ogni estate.

Altri, tra di loro molti musicisti, arrivavano di passaggio e poi si fermavano.

Presto Corniglia diventò un piccolo centro jazz internazionale e spesso, sulla piazza al lume della luna, si potevano godere piccoli concerti spontanei.

Le figure arcaiche dei vecchi di Corniglia rimanevano sempre a distanza, non c’era niente che potesse influenzarli, né i vestiti colorati, né il modo di parlare spontaneo. Con la faccia critica esprimevano la loro disapprovazione verso il mondo degli ospiti estivi. Ambedue i gruppi si osservavano accuratamente.

Opera A

Pistoletto che era attratto dalla vita arcaica movendosi tra Corniglia e il resto del mondo scrisse un‘opera di teatro, “Opera A”, nella quale i suoi amici del mondo artistico, assieme ai i vecchi e ai giovani del paese, recitavano insieme.

Il testo prevedeva una parte pantomimica e una parte recitata in dialetto cornigliese, oltre a balli e canti.

I vecchi apparivano sulla scena con i vestiti da lavoro – spesso costumi strausati senza bottoni e cerniere – e zoccoli, le donne il più delle volte con la casacca millefiori. I giovani indossavano jeans e t-shirt, come nella vita di ogni giorno.

Il contenuto di Opera A si rifaceva al Vecchio Testamento e, nello stesso tempo, aveva come tema le piaghe dell’umanità, dell’umanità di oggi. Partendo dalla storia di Caino e Abele si vedevano due popoli che litigavano per un terreno fertile. Il litigio presto degenerava e si trasformava in combattimento, assassinio e guerra. Il conflitto, che si estendeva su ogni aspetto della vita, finiva con la costruzione della torre di Babele dove, in una gigantesca confusione di lingue, si arrivava a una totale incomprensione e incapacità di comunicazione. Poi cadeva il muro di Berlino e questo fatto storico fu festeggiato come una redenzione: la torre/il muro era stato demolito, gli uomini si ritrovavano e parlavano l’un con l’altro, liberamente, senza controllo né paura.

Le prove dello spettacolo furono ripetute per molti inverni.

Gli attori raccontavano che una sera il riscaldamento a gas si era spento perché, a furia di recitare, era rimasto troppo poco ossigeno nell’aria. Furono per tutti loro dei meravigliosi inverni, pieni di senso e senza noia.

Quando il pezzo fu pronto, il gruppo di artisti ricevette un invito da Roma. Il pubblico romano restó commosso dalla naturalezza degli attori: dopo lo spettacolo, tutti quanti furono invitati in un nobile palazzo romano. Gli uomini e donne di Corniglia continuarono ad esprimere e celebrare la loro originalità: spazzolarono il buffet, vuotarono bottiglie di vino e bighellonarono sui sofà di seta e damasco e sui tappeti cinesi, senza pensarci due volte. Quando ritornarono avevano qualche cosa da raccontare! A sentir loro avevano vissuto l’episodio biblico di Sodoma e Gomorra in un palazzo di lusso del cinquecento. 

Don Ottavio sul molo

In estate, tutti scendevano giù al mare; ottanta metri di rocce ripide ci avvicinavano con tornanti dolci alla superficie del mare che splendeva come uno specchio: scendevamo nel caldo verso la freschezza per abbandonarci alla grande culla. Ci installavamo sui grandi scogli e ognuno, solo e calmo, poteva adorare il sole. Se ci stancavamo della solitudine, ci alzavamo e ritornavamo sul molo, dove c’era sempre qualcuno con il quale si poteva chiacchierare.

Confrontati con un orizzonte senza limite e l’eterno movimento dell’acqua, si poteva parlare del tempo, del pranzo di oggi, ma anche delle grande domande della vita, a volontà.

Più di una volta, io ebbi la fortuna di incontrare, sul molo, un corniglese che durante l’anno girava il mondo come celebre tenore. E più di una volta, nel momento del tramonto del sole, quando la maggior parte della gente si era già avviata su per le scale faticose, riuscii a farmi esaudire un desiderio: godermi le due arie di Don Ottavio dall’opera “Don Giovanni” di Mozart – “Il mio tesoro intanto” e “Dalla sua pace la mia dipende” -, cantate a cappella con fervore.

Le miracolose note si allontanavano sopra la superficie dell’acqua e, sospendendo per un attimo la transitorietà della musica, continuavano a suonare fino a scontrarsi contro il muro di rocce in fronte. Sul molo - che significava il mondo – avvenne il miracolo della trasformazione di un bagnante in costume leggermente panciuto nell’ amante Don Ottavio, che la musica trasforma miracolosamente per un attimo da vigliacco e disprezzabile in una persona amabile e coraggiosa. Una metamorfosi che rendeva bugiardi i miei occhi e regalava alle mie orecchie un trionfo, il trionfo dei sensi sopra la ragione.

Col bisturi sul molo

Un tardo inverno ci visitarono due amici: un biologo marino e la sua compagna.

Lui, in quei tempi, studiava la trasmissione dell'informazione nel sistema nervoso.

Era tempo d'inverno, quando il mare appartiene ai pescatori che, seduti nelle piccole barche vicino allo scoglio, pescano i polipi. Allora alcuni di loro avevano preso posto vicino al molo.

Il polipo era la meta ideale dello studio del nostro amico, dato che il polipo possiede un sistema nervoso gangliare e i suoi gangli sono visibili a occhio nudo.

Con i pescatori eravamo rimasti d'accordo che ci avrebbero portato al molo dove avremmo avuto a disposizione tutti i polipi presi.

Noi avevamo installato un piccolo tavolo operatorio, assieme a un vassoio di raffreddamento ad azoto liquido, nel quale i gangli andavano subito congelati, per essere poi trasportati in Germania e studiati sotto il microscopio elettronico.

I pescatori, poi, prendevano indietro i polipi ai quali non mancava niente di essenziale per essere gustati a pranzo, cotti con le patate e il prezzemolo.

Il nostro amico trovò poi, sulla membrana cellulare dei gangli, una varietà di ricettori ai quali si attaccano i trasmettitori prodotti da questi animali, garantendo cosí la trasmissione dell'informazione da cellula a cellula.

Paradiso perduto

Dato che in paradiso il tempo sembra sospeso, nessuno di noi si accorse che stava per avvenire un cambiamento, alla fine del quale il paradiso si sarebbe perduto.

Mentre noi ci godevamo il nostro ruolo di ‘extraterrestri’, la realtà cominciava a rosicchiare la nostra Corniglia: Il mondo scopriva le 5 Terre.Tutto cominciò con alcuni articoli sui giornali e settimanali femminili che si impadronirono di questo gioiello.

Guide turistiche apparvero presto sul mercato. Quell’angolo segreto era su ogni bocca e , più se ne parlava, più segreto sembrava diventare.

Ovvio che il carugio sarebbe cambiato. Dalle cantine fresche a pianterreno, dove a memoria d’uomo era sempre stato torchiato il vino, furono espulsi i tini di legno, le botti, i torchi e le damigiane, che furono messi accanto all’immondizia, per far entrare: boutiques, ristoranti, pizzerie, gelaterie e negozi di souvenir di cattivo gusto.

Le vecchie donne orgogliose di una volta si appostavano all’inizio del paese per chiedere a tutti i passanti: “Volete vino?”.

Iniziò un boom di ristrutturazioni che trasformarono ogni appartamento in una batteria di camere da affittare. Dai salotti di una volta, grandi e generosi, si facevano uscire stanzette indegne dove appena poteva sostare senza girarsi una persona: vere stanze ‘a misura d’uomo’.

E poiché in stanze del genere si può soggiornare al massimo una notte, nacque il turismo di giornata, un turismo che scuciva dalle tasche degli ospiti soldi senza nessuno scrupolo.

Gli stranieri rimasero sbalorditi dai prezzi. Gli americani, liberati per un giorno durante il loro giro ‘Europe in five days’, senza cicerone e abbandonati, cercavano disperatamente un bar di hamburger; gruppi di giapponesi fotografavano ogni dettaglio: tutti i cliché diventavano realtà.

I nuovi turisti, in fila continua, percorrevano tutto il carugio fino alla piattaforma di S. Maria e, al ritorno, potevi leggere sui loro visi “ è tutto qui?”.

Alla sera, un’ondata di bottiglie di plastica e di cartoni da pizza era finita negli androni delle case.

I villeggianti di una volta non riuscirono più a ritrovare i loro alloggi e, quando vedevano la banda degli sfruttatori e la massa dei turisti, si sentivano ingannati e cacciati dal paradiso. Gli artisti cercarono un’altra dimora. Molti di loro che, una volta, avevano amato il sapore di Corniglia e ne facevano parte, si ritrovarono nell’entroterra o a mezz’altezza fra mare e monte. E, ogni volta che si incontravano, la Corniglia di una volta era il l tema della loro nostalgia.

La stampa e internet continuavano a lodare la solitudine e la tranquillità delle 5 Terre. “Non c’è turismo”, dicevano. Un bell’esempio di manipolazione e contorsione della verità.

La fine del paradiso coincise con la fine del mio matrimonio. Dato che non avevo mai sentito che una coppia di Corniglia avesse divorziato, pur sapendo che nel paese c’erano difficoltà matrimoniali, per anni non osai più ritornarci, temendo di incontrare poca comprensione per la mia decisione di divorziare.Per cinque anni resistetti con il cuore pieno di nostalgia. Fu allora che Corniglia mi venne incontro.

Theater im Marstall

Una sera, in Germania ricevetti una telefonata da mia nipote cornigliese: “Zia, siamo a Monaco di Baviera con ‘Opera A’, vieni a vederci?” “Naturalmente!”

Quando furono aperte le porte del teatro raggiungemmo, attraverso il foyer, la sala buia e ci sedemmo per terra. Pian piano, quando gli occhi si abituarono all’oscurità, intravedemmo sulla scena delle colonne umane che portavano un fregio: una costruzione fatta di uomini: l’inizio della torre di Babele. Sembravano immobili, ma coll’andar del tempo vidi che alcuni mi guardavano e mi strizzavano l’occhio e che questa e quella mano mi faceva segno di saluto.

Il testo mi riportava a Corniglia, e le parti pronunciate in dialetto mi toccarono fino alle lacrime.

Dopo la rappresentazione ci incontrammo e lo spettacolo per me continuò: Pisi si appoggiò al tavolino e ordinò un caffè alla Balé.

“Perche non sei più venuta da noi, ti abbiamo fatto un torto?”

Necessariamente raccontai della fine del mio matrimonio e del mio timore di incontrare incomprensione a Corniglia.

“Ma pensi che siamo ciechi?”

Due settimane più tardi presi una casa, assieme al mio secondo marito, a mezza costa in casa di amici e scesi a Corniglia.

Corniglia nuova

Commovente fu il benvenuto: “La nostra dottoressa è tornata!“

E proprio come tale dovevo avere a che fare con il paese. La gente di Corniglia, allora, era molto lontana dall’avere un sistema di pronto soccorso funzionante e, in caso di emergenza, dipendeva completamente da se stessa. Il mio secondo marito (pilota di elicottero di pronto soccorso chiamato dai suoi colleghi “il doc”), io e la mia valigia da medico di emergenza potevamo realmente aiutare in alcuni casi seri.

Un signore anziano soffriva, nell’afa di quell’estate, di un edema polmonare. Lo piazzai nell’ambulanza a busto sollevato, la sonda dell’ossigeno nel naso, e lo trattai con un diuretico per togliere il liquido dal polmone. Lui sentì un certo sollievo nel respirare, ma durante il trasporto verso La Spezia cominciò a soffrire molto su quella strada tutta curve prima a destra, poi a sinistra e viceversa, su e giù, veniva sbattuto da una parte all’altra, anche se era bloccato dalle cinghie. Nel frattempo aveva anche la vescica piena. “Nu g’he a fagu ciù.” “Tu sei sopravvissuto alla guerra, ai fascisti e ai tedeschi, sopravviverai anche a questo viaggio.”

E così fu.

Nei giorni successivi eravamo invitati dappertutto, per mangiare e bere. Appena ci sedevamo al bar sulla piazza e ordinavamo un bicchiere di prosecco, subito appariva davanti a noi una bottiglia di champagne nel secchiello con il ghiaccio e con il tovagliolo bianco attorno al collo. Ogni proprietario di ristorante era già preparato e passava il conto dei nostri pranzi direttamente alla famiglia dell’anziano paziente. Per due settimane ci trovammo nel paese di Cuccagna.

Seduti in piazza, vedevamo tanta gente: turisti che correvano avanti e indietro, mentre aspettavamo di vedere i nostri amici. Ma invano, non arrivavano più. Mario, mio marito, si era innamorato di colpo di quel paesaggio. Ambedue cominciammo a cercare una casetta, pronta oppure da ristrutturare. Dopo diversi anni di inutile ricerca, ci rassegnammo.“Adesso non possiamo fare altro che aspettare che ci venga incontro.”

Corniglia oggi

E l’occasione arrivò.

Il ragazzo di mia nipote, la cui madre ha una agenzia immobiliare, ci telefonò un giorno, all’improvviso. “Abbiamo una casa per voi. L’ho messa subito da parte.”

E ce l’abbiamo fatta! La casa è nostra e sulla facciata c’è scritto: “Aua ghe semu”.

Si trova a mezza costa sopra Vernazza, il paese accanto a Corniglia. E così siamo, anche se sembra strano, fuori dal mondo, dal mondo di Corniglia, separati da due colline. Da lì non sentiamo lamenti e mugugni, la gente, i grandi pettegolezzi, le invidie di uno verso l’altro,le gelosie, insomma tutti i peccati mortali. E quando scendo giù a Corniglia, con certezza trovo subito quello che dice: „Ven’utre, te che te gli h’a conosciu. Parlemo dei suggeti.”

A Vernazza ho ritrovato il mio ballerino del campo di concentramento. Possiamo trovarlo ogni mattina seduto davanti al bar all’entrata del paese che si gusta il suo ‘gottu de vin giancu’. Uno scapolo di razza! Ma non c’è da meravigliarsi, sappiamo tutti che è cresciuto senza zio!

Memoria collettiva sotterrata : I suggetti

Tempora mutantur et nos in eis.

Per tutti che li hanno conosciuti e li hanno sentito nominare 

 

Cugiu

Ho conosciuto “il Barone“ ossia “Cugiu“, quando avevo una trentina di anni e soggiornavo, allora moglie di Nicola, spesso a Corniglia.

In quei tempi già parlavo bene l’italiano e anche un po’ di dialetto ligure. Avevo molto tempo, poiché il marito, appena ritornato nella sua patria, partiva per andare a pescare in alto mare e non si faceva più vedere per parecchio tempo. Per non sentirmi sola e per evitare che le mie corde vocali si asciugassero e si incollassero, ogni sera scendevo giù in paese. Esattamente all’ora in cui tutti si riunivano per chiacchierare un po’, quasi per un‘antipasto’.

Il Barone era sferico come una botte, di piccola statura e con una faccia tonda, che entrava direttamente, senza collo, nel suo torace enorme ed enfisematico. Maestosamente e con passo lento si avvicinava al gruppetto riunito. Dato che la via centrale del paese andava un po’ in salita, era costretto a fermarsi dopo pochi passi, per prendere aria. Così, il suo avvicinarsi veniva registrato in tempo ed ognuno si immaginava velocemente il modo in cui lo si sarebbe potuto prendere per il culo.

Questa abitudine, ancora oggi, ha una grande tradizione nel paese di Corniglia. A cominciare dal fatto che per ogni abitante – che sia nato lì o che sia venuto da fuori – inventano un soprannome plastico che, con l’andar del tempo, si sostituisce al nome di battesimo, spodestandolo. Questo soprannome mette in luce – pars pro toto – il tratto più caratteristico della persona, e diventa, nello stesso tempo - pars in toto – una pietra nel mosaico colorato e splendido del paese.

C’è un “Leccalumi”, un parsimonioso ingegnere allora quasi sessantenne, cittadino, rispettato da tutti, il quale, da ragazzo, aveva fatto il chierichetto in modo talmente assiduo ed accurato che dicevano che leccasse addirittura le grandi candele da messa. C’è un “Pisi”, il casanova del paese, da sempre entusiasta di psicologia e che suole sedurre le donne con i suoi argomenti, raccolti proprio nel tesoro della psicologia. C’è un “Tapuli” e nessuno sa più, perché. ‘Tapuli’, in dialetto ligure, vuol dire: piccoli e difficili lavori; forse era la sua dote. C’è un “Patapum” e si può immaginare che questo nome derivi dalla sua goffaggine. C’è “la Matta”, una donna dall’enorme petto e dalla voce forte che pronuncia, più che altro, cose senza senso. Nella mia casa abitava “Mariusciu”. Mariusciu, cioè Mario, amava parlare francese, che il suo interlocutore lo capisse o no. Ci sono “Balé” e “Peci”, che conosceremo più tardi.

La parola “Barone” descrive al meglio l’atteggiamento, i gesti, la mimica, il modo di parlare che aveva sviluppato il Barone con l’andar del tempo e con l’entrata nella fase della saggezza. Provocava amore e rispetto intorno a lui e, se era scelto improvvisamente come preda di uno ‘scherzo’, lo affrontava con un silenzio superiore e pieno di dignità, nobilitandolo. Questo fatto, naturalmente, spingeva sempre di più la fantasia degli “scherzanti”, che tentavano di centrarlo, almeno una volta, con una ‘bomba’ che inducesse anche lui a ridere. Non ci sono mai riusciti.

Cugiu vuol dire ‘compare’ nel senso antico, ed era l’espressione con la quale il Barone si indirizzava agli altri. A me si rivolgeva chiamandomi “cugia”, ‘comare’. Quel “cugia” evocava un sentimento di familiarità, faceva pensare alle grandi abbuffate nelle feste di matrimonio e ai ‘cenoni’ che non si aveva mai goduto assieme a lui. Poiché era oculato, si potrebbe addirittura dire un po’ avaro, non partecipava mai alle feste. Un fatto che, naturalmente, nutriva anche lui la sorgente degli scherzi. 

Nel frattempo, Cugiu è arrivato da noi che ci siamo radunati nel bar. Col passo di chi compie uno sforzo immane travalica la soglia. Un breve momento per prendere respiro: “Buon giorno a tutti”. Italiano classico, ufficiale. “Cume te stà, cugia?”

Il primo scherzo, normalmente, è quello di invitarlo a prendere un caffè. Lui risponde con un rifiuto salivato “l’ho già piglià a ca.”

Segue l’invito a giocare a carte. Lui non risponde nemmeno, pieno di dignità.

Si arriva alla discussione degli avvenimenti importanti nell’ ambito del paese, o, qualora mai non fosse successo nulla nel paese, nel mondo. L’unica reazione comprensibile è un “ma nu te digo”. Il mondo per lui è il paese, tutto lo stesso miscuglio.

Appena si installa la quiete, mi prende a lato: “Tu che sei dottore: me fa ma er genuccio”.

Abbiamo in programma di far da mangiare e di cenare, assieme agli amici, in casa mia. Dato che il nostro appartamento si trova al quarto piano e che una mia amica, anche lei dottoressa, si trova da me in visita, decido di organizzare uno scherzo e lo invito per l’esame medico e per la fisioterapia, la sera alle 8. È d’accordo, perché, a quell’ora, in paese, tutti sono a cena, il vicolo è vuoto e nessuno lo vede trascinarsi su da noi. Teme le chiacchiere, e a ragione.

Siamo tutti su a cucinare e abbiamo aperto la porta verso la scala, affinché lui possa annusare i sapori meravigliosi e affinché noi possiamo sentirlo ansimare su per le scale. Basta avvertire il suo respiro rumoroso che già cominciamo a ridere lievemente e un ridere soffocato sviluppa una potenza vulcanica. Cominciamo a scommettere quanto tempo ci metterà per arrivare su da noi. Io che calcolo 25 minuti, ho ragione.

Gli vado incontro all’entrata e lo accompagno nella sala col divano. Lui vi si lascia cadere sopra, sollevato. La mia amica e io gli alziamo le gambe del pantalone per dare un’occhiata al ginocchio che gli fa male. La parte maschia degli amici partecipa con fervore e non risparmia consigli affettuosi: “Attente, non troppo in alto! Risparmiate le parti sensibili!” Non riusciamo ad alzare il pantalone al di sopra del ginocchio , e allora: “Giù il pantalone.” Discretamente mandiamo in cucina gli amici.

Adesso possiamo palpare il ginocchio; è così grasso che ambedue troviamo il posto per palpare contemporaneamente. Confronto con l’altra gamba: Il suo ginocchio sano non è più snello. Solo la visita e la palpazione, eseguite con impegno professionale, fa scomparire i dolori. Arriva il momento del “balsamo di tigre”, una “medicina mooolto efficace”. Nessuna di noi sembra mai stanco di spalmare, ungere, massaggiare, tutto in maniera molto sottile e tenera. Cugiu non fa a meno di sospirare per il benessere e il senso di guarigione. I ragazzi ridacchiano cucinando.

Invitiamo il Cugiu a cena: “aua che ti è su”.

Più tardi ci regala un’ulteriore sua visita a casa nostra. Questa volta basta l’invito a cena per fargli intraprendere ancora la salita difficile. Tutti sappiamo: 25 minuti, aggiungiamo ulteriori 5 minuti, e andiamo giusti. Lui non si fa togliere la pace dai nostri scherzi assiduamente inventati e divora una montagna di spaghetti, taciturno e in dignità. Tentiamo di bombardarlo con i nostri consigli: “Dovresti cercarti una donna e risposarti, allora avresti, ogni giorno, il tavolo così pieno di bontà come qui. Dopo lei ti curerebbe con amore e ti riscalderebbe durante la notte.” Alla fine siamo tutti persuasi della bellezza della vita coniugale, eccetto lui.

Ogni volta che sto per andare al mare e lo incontro, chiedo ad alta voce, se mi accompagna a fare un bagno: “Te te tursi un po’.” Lui risponde facendo schioccare la lingua. Gli descrivo le gioie del bagno, di volta in volta più dettagliatamente:” Da 50 anni non ho più visto il mare.” Le persone intorno s’immaginano, Cugiu vestito in costume e hanno problemi a stare seri.

Arriva l’inverno, il che vuol dire: periodo tranquillo senza turisti e turiste. Con meraviglia di tutti appaiono insolitamente diverse coppie di donne da Berlino, la presenza delle quali porta a cottura gli ormoni maschili. Ma i più raffinati tentativi di seduzione non portano a nulla: Le ragazze sono lesbiche e si sentono rafforzate nel loro disprezzo del lover, e, soprattutto , del latin lover.

Presto i giovanotti devono arrendersi e cominciano di nuovo con il loro passatempo preferito: prendere per il culo.

Continua a piovere, diventa buio presto. Dopo cena, solo pochi uomini vanno al bar anche nelle serate, nelle quali non c’è una partita di calcio in televisione.

Il maestro di scherzi si chiama “Lara”. E’ un dottore rigorosamente scapolo. Ha immaginato che sarebbe divertente chiamare a casa, dal telefono del bar, i mariti assenti e, se risponde la moglie, di chiedere in falsetto del marito. Se invece è lui che alza la cornetta, subito lo si investe con un fuoco di fila di frasi hard, del genere seduzione sessuale al telefono. Il marito di solito riesce appena a stare in piedi e non osa più rispondere; ogni difesa potrebbe sembrare ancora più sospetta alla moglie. Quando la voce arriva ai guaiti più espliciti butta giù il telefono e sospira. Nell’uno e nell’altro nasce il sospetto. Il marito si butta, munito di capotto e ombrello, in direzione bar, dove, nel frattempo, tutti sono seduti a giocare a carte, attentamente, dopo essersi quasi pisciati addosso dal ridere. Riescono a stare seri, non sanno niente. Dopo la sua partenza, ricominciano le risate, si ripassa la storia e ogni argomento super sexy viene ripetuto tra le lacrime. Le risate più grandi esplodono ricordando le lodi di certi aspetti fisici del personaggio e, prima di tutto, di questo e quell’altro difettino o caratteristica fisica, come per esempio un naso grande, una gobba, delle gambe storte e delle palle pendenti.

Il sesso al telefono è un’ottima idea, perché gli uomini non osano parlarne tra di loro. Ognuno pensa di essere l’unico. E, di nascosto, ognuno pensa che, senza volerlo e senza saperlo, ha acceso un fuoco di passione. Solo con la sua apparizione….

Quelli con attributi particolari ricevono telefonate ripetute. Ogni volta, un difetto o un’imperfezione fisica, raccolgono le lodi più celesti, e vengono decantati come specialità che provocano l’amore, sotto mille sospiri.

In casa, nel frattempo, c’è guerra. La moglie non può immaginare che uno qualsiasi del paese spenda dei soldi per far uno scherzo. Se il marito poi, pieno di rabbia, appare nel bar, tutti gli chiedono con compassione se a casa non è abbastanza comodo.

Cugiu, grazie a Dio, non ha né moglie né telefono in casa. Così può passare, in tranquillità, tutto l’inverno. La tranquillità prima della tempesta, perché la compagnia ha deliberato qualche cosa di speciale per la primavera.

Il progetto parte proprio quando la prima turista, una giovane ragazza, un sabato prima di pasqua appare nel bar e saluta con un sorriso Cugiu. Lara e gli amici dichiarano, il giorno dopo a Cugiu che la giovane donna si era mostrata molto entusiasta di lui e della sua apparizione e che lei, dopo che lui se ne era andato, si era interessata con fervore a lui. Ha chiesto anche dove abita. E, per dire la verità, uno di loro, al ritorno dei campi, l’aveva vista scodinzolare nella sua via. Le chiedono se ha avuto una visita per caso.

“È bellina.” Il suo unico commento, maestoso. 

Al bar, la sera, lei sta prendendo il caffè quando il Cugiu entra. Lui la saluta come un gentiluomo, chiedendole “com’è andata la giornata?” Lei risponde: “Bravo, lei è un poeta.” Lui getta l’occhio di traverso e in giù, arrossendo.

Nei giorni seguenti Lara e la sua banda s’immaginano una storia inverosimile e si propongono di realizzarla.

Danno da bere a Cugiu che l’amante della giovane donna è arrivato e che si è arrabbiato ferocemente quando ha sentito parlare del suo flirt con lei e che ha chiesto subito dove abita. Loro con molto sforzo sono riusciti a non svelarlo. Il fidanzato poi ha minacciato di andarlo a cercare e ha giurato che lo troverà. Gli dicono che la giovane ha delle macchie sul collo per i suoi baci (immaginarsi le risate soppresse!) e che il suo amico sospetta che lei sia stata violentata perché mai al mondo avrebbe fatto volontariamente una cosa del genere: tradirlo. C’era solo da sperare che lei non fosse incinta. Il Cugiu oscilla tra sdegno e lusinga. Dignitosamente non dice nulla. Gli altri aggiungono che, mai al mondo, avrebbero pensato che lui fosse un’amante così acceso. Dalla paura lui non esce più di casa.

Passati alcuni giorni osa finalmente uscire.

Appena entra nel bar, c’è nervosismo dovunque. I presenti chiedono: “Ma non hai incontrato, venendo qua, il giovane fusto? È appena uscito dopo aver chiesto di te. Senz’altro ritornerà.”

All’ uscita posteriore del bar c’è un piccolo sgabuzzino, nel quale il barista conserva scatole usate e bottiglie vuote . Da tempo non lo ha più pulito. Gli amici aiutano Cugiu a rintanarsi lì. Lo schiacciano dietro i cartoni, tirandone fuori alcuni per celarlo. Prima di lasciarlo lo assicurano che sarebbero venuti a prenderlo, appena l’aria fosse stata più pulita. L’ultimo consiglio è di trattenere il respiro, per non essere sentito. Poi si ritirano nel bar e si pisciano addosso dal ridere. La risata più tremenda segue alla conferma: “Ci sta credendo veramente.”

Solo dopo due ore, lo vanno a liberare. Lui è senza fiato, completamente distrutto e pallido dallo sforzo. E così decidono di finirla lì e gli raccontano che la ragazza è partita assieme all’amico, non senza ordinare a loro di trasmettere i suoi saluti più cari al “Barone”.

Per qualche tempo viene risparmiato dagli scherzi. Tutti sanno benissimo che la messa in scena era stata portata veramente al limite. Così regalano i loro doni ad altri.

Al colmo dell’estate, in una giornata incredibilmente afosa, nella quale solo pochi vanno al mare perché il sole brucia infernalmente dal cielo, Cugiu, meravigliando tutti, si avvia verso la spiaggia a piedi. In tanti lo consigliano di non andarci, lui però parte tenace.

Due ore dopo, al paese giunge la notizia che “Il Barone” è morto nell’acqua del mare. Le onde erano piccole, nessun pericolo, lui sapeva nuotare.

 

 

Balé

Balé era vedovo. Ne soffriva tanto, perché sentiva ancora la vita dentro di se.

Balé era pensionato. Godeva di tre pensioni: una della ferrovia, una dei coltivatori diretti e una come vedovo.

Balé era piccolo e impacciato. Aveva un occhio di vetro e una gobba. Coll’andar del tempo il suo corpo era diventato curvo, piegato quasi ad angolo retto.

Ogni sera, dopo la cena solitaria, arriva nel bar per gustare il caffè.

Si appoggia al banco, tutto piegato, e quando il barista gli chiede “cosa prendi “, risponde: “Fa un caffè.” In quel momento si raddrizza per ricadere immediatamente dopo in posizione ortogonale. Si aiuta a raddrizzarsi, movendo il braccio destro come per avvitarsi su. Appena il caffè fumante si trova davanti a lui, lo annusa prima di vederlo, si riavvita in posizione eretta e prende il manico della tazzina tra il pollice e il medio. Appoggia la tazzina al labbro inferiore e si piega, con uno sforzo inumano, all’indietro, usando lo slancio e catapultando il caffè in gola con la velocità della luce; poi ritorna in squadra, roba di un secondo. Non proprio un godimento. La sua gobba lo rimette in posizione, e così, pendolando, apre il portafoglio per cercare 200 lire che butta sul banco. Senza un “buona sera”, né un “arrivederci”, esce.

Qualche sera speciale, durante l’inverno, rimane più a lungo nel bar. Una volta anch’io, sono seduta al tavolino, perché in casa fa freddo e mi annoio da sola. Mi accorgo che mi guarda e dice al suo vicino: “Avere 50 anni di meno…” Non dieci, non venti! Cinquanta!

All’inizio ascolta gli altri appoggiandosi al banco senza dire niente. Ma arriva il momento in cui non può più fare a meno di commentare quello che ha sentito. Lo sputa fuori con fervore e in un tono militare. Un commento il più delle volte distruttivo. Quelli invece che non hanno subito la sua acida censura lo invitano a una partita a carte. Tutti sanno benissimo che si arrabbia facilmente, se non vince. E così’ succede. 

La ‘Briscola’ si gioca in quattro. I due seduti di fronte giocano insieme. Comunicano a forza di sguardi e con la mimica. Dato che i gli avversari li possono osservare, la comunicazione deve avvenire velocemente, in un lampo. 

Si racconta che una volta, un cornigliese aveva come compagno di briscola uno che soffriva di un forte tic nervoso. Succedeva che una salve di movimenti si scaricavano sul suo viso e scuotevano la sua testa in modo furioso e il tutto peggiorava quando era nervoso. Coll’andare del gioco, la situazione per il signor tic e il suo socio non si era sviluppata a loro favore; il nervoso veniva a galla. Il compagno guardava attentamente nella faccia di fronte e vedeva un terremoto. Di conseguenza butto’ giù il rè. Questo fu l’inizio della fine. I due persero vergognosamente, senza aver vinto una mano. Il signor tic, che con le parole era piuttosto incontinente, non riuscì più a frenarsi e strepitò come un carrettiere. Il suo compagno, essendo un gentiluomo, rinunciò a giustificarsi. Ma non si accoppiò mai più con lui.

In fondo, ogni gioco finisce con una discussione rumorosa. Ogni singola mano viene analizzata, dalla fine all’inizio – esattamente come si fa con le barzellette. Prima si racconta la barzelletta; poche risate. Poi arriva la spiegazione cominciando dalla fine e arrivando all’inizio, passo dopo passo: come e perché, dato che aveva detto prima così, ma poi, capisci, lei aveva fatto quello, ma, e cosi via – un’analisi tegliente. Adesso tutti ridono.

Assistendo a un gioco di carte, si può, dopo la fine di ogni mano, imparare un tesoro di parolacce, arricchendo infinitamente il proprio vocabolario. Balé si siede, dopo essere stato invitato mille volte, al tavolo per una partita. Tutti i presenti formano un cordone attorno. Prevedono che sarà molto divertente. Le prime mani passano in modo normale. Finito il quarto giro, Balé salta su nervoso, perché ha perso per la quarta volta. Gli altri, vedendo avvicinarsi la fine del loro divertimento lo richiamano : “Dove vai?” Balé, raddrizzando un poco la gobba: “M’en vago a ca, dritto cume una candeia.”

La sua vera passione è la pesca. Se non trova un compagno con la barca, pesca dagli scogli. Si vede, da lontano, una figura china che con la gamba destra leggermente avanzata si dondola dalla gamba destra a quella sinistra; l’unico occhio vispo concentrato sul galleggiante. L’occhio di vetro ancora più concentrato. Mentre lo guardo, un pesciolino che ha abboccato gli tira la canna dalla mano. Che tarantella!

Una domenica riesce a trovare un compagno con barca. Il compagno è cieco e contento di aver trovato uno con almeno un occhio. Si mettono d’accordo di andare prima a fare muscoli, per poi poterli mettere all’amo e pescare. I muscoli crescono sugli scogli, immediatamente sotto il livello dell’acqua. Si dividono il lavoro in modo seguente: Balé a poppa, remando, perché vede dove andare. Il cieco a prua come polena, pronto di saltare sul sasso appena Balé annuncia che sono arrivati. Balé rema, rema, colpo dopo colpo. Improvvisamente, Balé esclama: “Aua ghe semu!” Una mosca gli è finita nell’occhio, nell’unico occhio a bordo. Non vede più nulla. Il cieco interpreta che sono arrivati presso lo scoglio, e salta nell’acqua. Non mi ricordo bene, se sapeva nuotare.

Balé è sempre in cerca di una moglie. Dato che, finora, non ha avuto successo con le donne del paese – fossero anche vecchie o vedove – si concentra su di me. Potrei divorziare. Diventa dolce come il miele, accetta che lo chiami ‘Balettino’ – se lo racconto oggi nessuno mi crede. Un giorno, arrivando col treno da Levanto, dove ha ritirato le sue tre pensioni, vede che sono seduta nella sala di attesa della stazione di Corniglia, aspettando il treno per La Spezia. Entra, butta la borsa, modello 1930, di cuoio strapazzato, sul tavolo. Con sforzo la apre e fa sgorgare un mucchio di ‘palanche. “Che te sá: son un uomo da spusa.”

È morto solo.

 

 

Peci

Peci era uno scapolo di fede, con le donne non sapeva fare nulla, neppure parlare. Anche se aveva un fisico bello, la faccia ben formata, le sopracciglia pronunciate e la figura alta, slanciata e muscolosa. Era una persona tranquilla, quasi timida, ben educata.

Passava i suoi giorni nei campi. A partire dalla infanzia si era abituato a vivere così. Li teneva curati alla meraviglia. Molti anni fa aveva piantato, qui e là, alberi da frutto in mezzo alle vigne ed anche qualche cespuglio di fiori, di salvia e rosmarino. Tutto quello che serve a far godere l’occhio e il palato. Su qualche terrazzo avevo piantato dei bei ‘bocchi’ di verdura. Le sue raccolte di olive, di frutta e verdura e la vendemmia di uva erano abbondanti.

A quel che si ricorda, Peci non aveva fatto altro lavoro. Così, con la sua pensione minima statale doveva cercare di vivere spendendo il meno possibile per i viveri.

Abitava nell’unico palazzo dei Fieschi a Corniglia. Corniglia era stata il più estremo punto a est del potere dei Fieschi. La ragione, per la quale questa famiglia patrizia aveva costruito, proprio lì, un palazzo regale: era quello di dimostrare, a tutti quelli che arrivavano dal territorio dei guelfi, cosa volesse dire potere e lusso. Ma anche i guelfi si diedero da fare moltiplicandosi meravigliosamente, cosicché, ancora oggi, la maggior parte delle famiglie di Corniglia si chiama ‘Guelfi’.

Peci e il suo fratello-gemello, che nessuno di noi ha ma visto in paese, avevano ereditato insieme il palazzo bellissimo. Questo vuol dire che erano gli ultimi discendenti della famiglia Fieschi, senza figli. L’eredità, poco dopo, provocò litigi e discordia. Così, i due fratelli decisero di dividere a metà il palazzo, da su in giù; ognuno di loro avrebbe continuato a vivere nella sua parte. Come conseguenza, l’immenso salone, dipinto di affreschi e munito di stucchi meravigliosi, venne diviso esattamente a metà con un muretto grezzo, mai intonacato. I due fratelli non avevano i soldi per mantenere il palazzo, tanto meno per risanarlo.

Peci dorme nella sua parte del salone. Per non morire dal freddo in quella stanza dal soffitto altissimo accende un fuoco a legna. Così, gli affreschi invecchiano più velocemente di lui.

In cucina, sembra, non dispone di nessun fornello. Si pensa che la vecchia cucina sia toccata al fratello e che ”Peci” abbia solo messo un tavolo in qualche stanza, sul quale può aprire le scatolette che lui compra , oltre il pane.

Quando va in negozio chiede dei “sottaccetelli”. Assieme alla verdura che ha raccolto, questo è l’unico suo cibo.

Alla sera, nel bar, si permette ancora un confettino dolce come dessert.

Peci raramente racconta. Io l’ho sentito raccontare solo due volte. E ogni volta si trattava di un miracolo.

Il primo miracolo, l’aveva vissuto lui stesso. Aveva innestato un arancio, piantato dai genitori, con un limone; i limoni servivano di più. Per tanti anni l’albero aveva portato frutti. Dopo un inverno molto gelido, Peci vuole raccogliere qualche limone. Ma sull’albero trova solo degli aranci. Non può credere ai suoi occhi. “È l’è a natua. Noiautri nu podemo fa nulla.”

Il secondo miracolo, del quale mi parlava spesso e volentieri da quando aveva saputo - e sentito dal mio dialetto - che ero sposata a Volastra, un paese in alto sul monte, è questo: quando i saraceni, che avevano seminato il terrore su tutte le coste del Mediterraneo per 500 anni, erano sbarcati sulla spiaggia di Corniglia, le guardie avvisarono la gente di Volastra – situata all’altezza di 400 metri sopra il mare – che i pirati stavano per arrivare.

Le donne del paese radunavano in fretta i gioielli, gli uomini toglievano le campane, fatte tutte d’oro, dal campanile; il tutto veniva nascosto in una caverna sotto i campi di vino – Volastra è in una zona molto carsica, piena di grotte, che fino ad oggi, non si sa dove vanno a finire; sono grotte molto pericolose e se qualcuno ci cade dentro può smarrirsi facilmente come è gia successo. I Saraceni, mezz’ora dopo, erano già arrivati in paese. Una prova di gran forma sportiva se si pensa che, la maggior parte del loro tempo lo passavano a bordo delle loro galere, senza potersi muovere granché. Deportavano tutta la popolazione, gli uomini per remare sulle galere, le donne negli harem orientali e i bambini per educarli a diventare giannizzeri turchi. Così, nessuno si ricordava della grotta e del tesoro. “Anca anché tutto l’ou è nascosto suttu terra.” Peci sogna con lo sguardo lontano.

Nel periodo degli scherzi, anche Peci è una preda; anche se è vero, che la fantasia ha i suoi limiti, perché Peci è così taciturno che nessuno, l’ha mai visto in un attacco di rabbia o esprimere un qualsiasi sentimento . Nessuno conosce un episodio della sua vita. Quindi non è possibile immaginare uno scherzo fatto su misura.

La sua parsimonia rimane l’unico punto d’attacco. Perciò Lara e gli amici prendono una moneta da 100 Lire, ci fanno un buco e la fissano con un filo elastico, trasparente. Quando Peci si associa al gruppetto di amici che si è radunato in piazza nel buio dopo il tramonto, per dare alle donne il tempo di preparare la cena (Peci arriva dalla spesa con i “sottaccettelli”) uno di loro getta in terra la moneta preparata e la ritira immediatamente. Peci, che ha sentito un rumore metallico, guarda per terra e cerca assiduamente il soldo. Rifanno lo scherzo due o tre volte, poi nel gruppo nascono i commenti: “Peci, hai la tasca bucata!” “Devi essere molto ricco perché butti via i soldi.” Lo aiutano a cercare per terra, con fervore. Poiché non riescono a trovare nulla, lo rimproverano che lui li sta prendendo per il culo.

Una sera si parla di fichi. Dico che sono il mio frutto preferito. Un albero biblico. Il giorno dopo, davanti alla mia porta, trovo un cestino pieno di fichi dolci. Peci!

Un inverno la gente si accorge che non vede Peci da parecchi giorni.Lo hanno trovano morto, sdraiato sul suo letto nel salone brutalmente diviso, nel palazzo Fieschi. Le figure degli affreschi non si sono accorte di nulla.

 

 

Ofelio

Ho conosciuto Ofelio, quando soggiornavo a Riomaggiore per studiare e prepararmi a un esame di medicina; le giornate erano così noiose che, a volte, scappavo per andare per ‘cantina’. Riomaggiore era piena di cantine; ogni casa aveva la sua nel pianterreno, perché ogni famiglia produceva il suo vino.

Ofelio giungeva spesso da Biassa dove, essendo vedovo, viveva solo e si annoiava. Appena arrivato, cominciava il suo giro per cantine con un corteo di amici che di cantina in cantina diventava sempre più consistente. A un certo momento mi ci aggiungevo anch’io. Si mangiava pane bianco con acciughe sotto sale; così la sete si accendeva infinitamente. Si beveva il vino bianco color dell’ambra, col suo sapore di salmastro e di mare.

Ofelio, a partire da un certo punto del giro delle cantine, soleva brontolare contro le vedove della sua età. Le accusava di aver fatto finire i loro mariti sotto terra per godere dei loro soldi e anche per cercarsi un nuovo marito. Lui, diceva, come vedovo era un uomo richiestissimo dalle donne, tanto che a fatica riusciva a difendersi dai loro attacchi. A pensarci bene, col senno di poi sono dell’avviso che quei discorsi erano i primi segni di un suo innamoramento.

Cominciava a raccontarmi di sua moglie, che era morta in giovane età per un infarto. Diceva di essersi capito così bene con lei, di aver fatto tutto insieme a lei. Tutto il lavoro nei campi di Tramunti, dove possedevano anche una piccola casa fatta di legno, nella quale potevano conservare gli attrezzi. Lì, nei giorni belli d’estate, mangiavano e riposavano all’ombra delle vigne e d’inverno si facevano riscaldare dai raggi tiepidi del sole. Per anni era stato triste. Lei gli mancava ancora.

Tentavo di consolarlo: “La vita non è ancora finita, dietro il prossimo angolo, forse, c’è la felicità”. Così parlavamo spesso.

Un giorno, la terra a Riomaggiore cominciò a bruciarmi sotto i piedi: ritornando a casa, una sera, trovai in strada un piccolo pacchetto avvolto in carta stagnola. Lo presi e lo portai a casa. Non avevo nessuna esperienza nel mondo delle droghe. Lo aprii. Uscì un piccolo blocchetto marrone che profumava stranamente. Solo più tardi intuii che cosa poteva essere.

Il giorno dopo portai il corpo del reato ai Carabinieri di Riomaggiore. Lo sequestrarono e fecero un protocollo con tutti i miei dati personali e la storia del rinvenimento. La mattina dopo, tutti i quattro pneumatici della mia macchina erano foracchiati. Questo mi allarmò. Ne parlai a Ofelio e lui mi cercò un piccolo appartamento a Biassa, nella casa accanto alla sua.

Subito, nella prima notte dopo il mio trasloco, ci fu una rissa tra i ragazzi di Biassa e un gruppo venuto da Riomaggiore. Ofelio prese il fucile dall’armadio e lo pose accanto alla finestra dalla quale poteva vedere la mia dimora. Era pronto di difendermi con le unghie e coi denti.

Dato che adesso abitavamo a portata d’occhio, ci incontravamo a ogni piè sospinto. Mi invitava nella sua casetta a Tramunti, dove, un bel giorno, mi confessò il suo amore. Io lo contraccambiavo con un’amicizia profonda e piena di rispetto.

Nel frattempo avevo finito i miei studi, mi ero sposata e avevo cominciato a lavorare. I miei viaggi nelle Cinqueterre erano diventati rari e limitati alla famiglia. Ofelio mi scrisse due lettere meravigliose, che meritarono una bella risposta.

Un giorno mi avvisarono che Ofelio era stato colpito da un ictus. Mio marito e io corremmo subito a Biassa per vederlo. Lo trovammo seduto nella poltrona. Era un po’ debole, ma poteva parlare. Non si ricordava di me, non sapeva nemmeno chi fosse quella persona davanti a lui. Di mio marito, che aveva conosciuto già da ragazzino, invece si ricordava benissimo.

Poco dopo ci dissero che era morto.

Molti anni più tardi ero, assieme alla mia amica Gisela, nelle Cinqueterre.

Decidemmo di fare una visita a tutti gli amici morti.

Comprammo quattro rose rosse. Tre le posammo sulle tombe di Cugiu, di Peci e di Balé.

Al cimitero di Biassa cercammo a lungo l’ultima dimora di Ofelio.

All’angolo vedemmo tre vedove che chiacchieravano. Domandammo della tomba di Ofelio – ce la mostrarono.

 

 

***

Tutto quello che ho raccontato fino qui proviene da un'altro tempo; quarant’anni fa ero arrivata, assieme ai miei amici del teatro, a Riomaggiore, quando partimmo per la festa dell'Unità a Corniglia e….e…Oggi, li 27 di luglio 2011, ritorno a Riomaggiore. Passo per un paese cambiato, sconosciuto, infettato dal turismo: gruppi di turisti, negozi per turisti, ciceroni da turista. Addiritura il allora 'nostro' ristorante "Da Bombetta" - appellazione dovuta all’oste tondo come un pesce palla - è diventato "Snack, Pizzeria "The Bomber". Con ciò ho detto tutto.

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Tag der Veröffentlichung: 07.06.2010

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